L’agricoltura sociale (AS) è sempre più diffusa anche nel nostro paese, dove oggi vanta finalmente un riconoscimento e una definizione ufficiale. Che cos’è, quindi, e quali sono i suoi benefici? Innanzi tutto partiamo dalla definizione: per agricoltura sociale si intende un insieme di pratiche agricole innovative con una funzione inclusiva. Queste devono essere infatti basate sulla sinergia tra settore primario e terziario, servizi socio-sanitari pubblici ed enti assistenziali, come associazioni, cooperative e Onlus. L’agricoltura sociale deve generare benefici nelle fasce più deboli della popolazione attraverso il coinvolgimento diretto di persone in difficoltà nella produzione di cibo, in un contesto protetto, in grado di rispettarne le esigenze e i ritmi.
Il fenomeno è presente in Italia e in Europa da molto prima di ottenere un riconoscimento ufficiale, spesso come risultato di una spinta dal basso. Solo negli ultimi 10-15 anni, però, è andato incontro a una notevole crescita che ha ampliato la platea di soggetti coinvolti (bambini, anziani, persone disabili, detenuti o ex detenuti, disoccupati con disagi socioeconomici, persone affette da dipendenze e, con la legge di conversione del DL Aiuti del maggio 2022, anche immigrati, rifugiati o richiedenti asilo) e il tipo di attività educative e socio-terapeutiche proposte (dagli agri asili alle fattorie didattiche, dagli orti sociali periurbani per anziani alle attività di riabilitazione e cura per persone con disabilità, fino all’agriturismo sociale, ai tirocini e alle esperienze orientate all’occupazione dei giovani).
La definizione normativa dell’agricoltura sociale in Italia è avvenuta solo con la legge 141/2015 (Disposizioni in materia di agricoltura sociale) e con il Decreto ministeriale 12550/2018. Con quest’ultimo in particolare si è dato un avvio concreto alle procedure di riconoscimento e promozione di tale modello, attraverso una definizione delle sue caratteristiche e la costituzione di appositi registri o elenchi degli operatori impegnati in quest’attività. La disciplina nazionale di riferimento non è però ancora completa e le singole Regioni procedono in ordine sparso, emanando proprie norme per il riconoscimento delle realtà agricole impegnate in ambito sociale e disposizioni specifiche per la loro promozione (tra gli esempi recenti ci sono l’entrata in vigore della legge regionale dell’Emilia Romagna, del gennaio 2022, e della legge regionale della Val d’Aosta, le cui linee guida sono state approvate proprio questo agosto, e l’approvazione della proposta di legge in materia da parte della Toscana, che ha anche lanciato un bando per sostenere questa tipologia d’impresa agricola).
Secondo alcune stime, in Italia le aziende dedite all’agricoltura sociale sono aumentate di sette volte nel decennio dal 2010 al 2020, arrivando a 3.500, con 38 mila addetti e un fatturato di 300 milioni. Sono distribuite pressoché in tutte le Regioni (dove operano anche in contesti difficili, come nel caso di Fuori di Zucca, in Campania, e Opera Terrae, in Calabria) che, esercitando la propria autonomia in materia di agricoltura, hanno dato un inquadramento alla loro attività, declinandola più in chiave agriturismo (come nel caso delle fattorie sociali erogative della Lombardia) o nel format della fattoria didattica (come in Friuli Venezia Giulia).
Anche guardando al contesto europeo, l’agricoltura sociale assume forme diversificate da un Paese all’altro: in Norvegia e Olanda le Care Farms sono accreditate come strutture sanitarie; in Belgio l’AS è integrata nelle politiche agricole che riconoscono l’impegno degli agricoltori in ambito sociale (green care); in Germania, Slovenia e Irlanda è presente nelle strutture pubbliche come strumento inclusivo per le persone svantaggiate; in Francia, infine, esiste una rete di circa 80 realtà agricole denominate Jardins de Cocagne, in cui sono attivi progetti di agricoltura biologica pensati per promuovere l’inclusione sociale e l’inserimento lavorativo di fasce marginali della popolazione.
I vantaggi dell’agricoltura sociale, secondo il Rapporto 2020 – L’agricoltura sociale: un’opportunità per le realtà italiane realizzato dal Centro Politiche e Bioeconomia del CREA, non riguardano soltanto le persone, ma anche le aziende agricole. Infatti, se da un lato questo format, grazie alla produzione alimentare, consente alle associazioni solidaristiche di aggirare l’ostacolo della fragilità economica che le contraddistingue, dall’altro anche per le aziende è vantaggioso impegnarsi in progetti etici complementari rispetto all’attività principale, perché permette di diversificare le fonti di reddito, migliorare la reputazione e incrementare il valore dei prodotti. Anche l’aspetto ecologico, poi, non è da sottovalutare: emerge infatti una correlazione tra l’agricoltura sociale e l’adozione di metodi a basso impatto, nell’ottica di una salvaguardia e valorizzazione delle risorse e di una promozione dello sviluppo sostenibile come modello, non solo per chi opera nel settore, ma anche per i fruitori.
Gli esperti identificano inoltre oggi le potenzialità dell’agricoltura sociale con l’espressione retro-innovazione, perché è in grado di fornire una risposta all’attuale crisi economica, ecologica e del modello di welfare. Questo modello mette al centro il rispetto della persona, della comunità e dell’ambiente e restituisce all’agricoltura una vocazione solidaristica che altri settori non hanno, facendone il fulcro di nuove reti che uniscono campagna e città. Non abbiamo ancora a disposizione un accurato censimento di questi progetti, le informazioni inerenti alla diffusione delle pratiche di agricoltura sociale hanno infatti finora riguardato solo le aziende agricole (incluse nel 7° Censimento generale dell’agricoltura), lasciando escluse le cooperative sociali. Anche queste ultime, però, possono svolgere attività di agricoltura sociale, a condizione che da essa dipenda almeno il 30% del loro fatturato. Una migliore comprensione di tale approccio consente di ripensare il settore primario. L’obiettivo non è solo favorire la crescita delle competenze di soggetti fragili, ma soprattutto stimolare la creazione di comunità coese con servizi efficienti e inclusivi, che consentano la permanenza delle persone e l’attrazione di nuovi abitanti in luoghi che tendono a spopolarsi, come le aree rurali e montane.
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