A distanza di 15 mesi dal primo ritrovamento in Liguria nel gennaio 2022 di una carcassa di cinghiale morto a causa della peste suina, l’epidemia è arrivata in Lombardia. Ad oggi le carcasse di animali ritrovate sono 980, con un balzo di quasi 700 nel 2023, e le regioni interessate oltre a quelle citate sono: Piemonte (con 467 casi), Lazio (87), Campania (25), e Calabria (13) (*). L’arrivo in Lombardia è un brutto segnale visto che la regione ospita 2.739 allevamenti suinicoli per un totale di oltre 4 milioni di capi. La situazione è difficile perché i tentativi portati avanti sino ad ora per arginare l’epidemia sono risultati scarsamente efficaci, e c’è il rischio che la malattia arrivi negli allevamenti di maiali destinati alla produzione del Prosciutto di Parma e altri salumi. Se ciò dovesse avvenire tutti gli animali presenti nell’area infetta dovrebbero essere abbattuti, e le esportazioni per i salumi della zona bloccate o fortemente ridotte, con un danno economico rilevante.
Per correre ai ripari in Lombardia si pensa di macellare subito i suini nelle zone dove sono state individuate le carcasse di cinghiale ,in modo da prevenire un eventuale contagio ed evitare il peggio. Il pericolo è che il virus arrivi negli allevamenti e, a questo punto bisognerebbe abbattere tutti gli animali e procedere allo smaltimento con un danno economico doppio. L’elemento positivo è che il virus non si trasmette all’uomo per cui non ci sono pericoli di tipo sanitario.
“La situazione è molto cambiata negli ultimi mesi– spiega Andrea Monaco dell’Ispra – il virus avanza e, dopo la Lombardia, mostra un ‘espansione verso la zona del cuneese dove negli allevamenti ci sono circa 1 milione di suini. Negli ultimi mesi la peste suina è comparsa in diverse altre regioni , come la Campania e la Calabria, ed è ragionevole pensare che sia stata trasportata dall’uomo, anziché diffusa dai cinghiali. Questo aspetto dovrebbe fare riflettere e, forse, permette di capire perché fino ad ora non siamo riusciti ad arginare l’epidemia anche se in questi 16 mesi sono stati nominati due commissari straordinari e sono stati varati un decreto legge e una legge ad hoc”.
Le reti poste in Liguria all’inizio dell’anno scorso per chiudere la zona infetta non hanno funzionato, ed è stato poco strategico affidarsi al volontariato dei cacciatori per individuare e recuperare le carcasse dei cinghiali morti. Per quanto riguarda le braccate dei cacciatori come strumento per ridurre il numero degli animali bisogna riconoscere che il metodo funziona poco, visto che negli ultimi anni pur essendo aumentate le catture dei cinghiali è comunque cresciuto il numero di animali in circolazione.
“La soluzione non è per niente facile – prosegue Monaco – i cacciatori devono essere affiancati da squadre formate da personale del Corpo forestale o di professionisti retribuiti in grado di organizzare azioni di prelievo selettive, operando con tecniche di sparo e di cattura che non provochino il disturbo e la fuga degli animali favorendo così la diffusione ulteriore del virus. Aad esempio si potrebbero utilizzare nuove tipologie di trappole molto efficienti. Anche l’attività di monitoraggio e recupero delle carcasse di cinghiali morti da inviare alle analisi rimane cruciale e non è sufficiente affidarsi solo ai volontari. Una carcassa infetta lasciata sul terreno è potenzialmente in grado di infettare per settimane o mesi ampliando a dismisura le possibilità di contagio e diffusione dell’epidemia”. Rimuovere e trasportare un animale morto o una carcassa di 50-70 kg, o oltre, magari localizzata in una zona montuosa come l’Appennino è comunque un’operazione complessa che non può essere affidata solo a volontari. Le carcasse ritrovate sono ormai quasi mille e la logistica è senz’altro impegnativa. Poi bisogna considerare che la stima degli animali in circolazione supera abbondantemente il milione (anche se non ci sono valori precisi). È impensabile che il mondo venatorio da solo risolva il problema aumentando le battute di caccia. Per organizzare seriamente gruppi di professionisti in grado di ridurre il numero di animali in modo selettivo (concentrando le catture sugli individui giovani e sulle femmine adulte) e gestire il recupero delle carcasse sono necessari fondi e investimenti. Ma la peste suina avanza su tutto il territorio e non aspetta interventi e investimenti che probabilmente non ci sono ancora.
(*) In Sardegna si registrano 7 casi nel selvatico e 4 negli allevamenti domestici, ma il virus è geneticamente diverso dal quello che circola nelle altre regioni e corrisponde a quello presente in Europa da alcuni anni.
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza in test comparativi. Come free lance si è sempre occupato di tematiche alimentari.
Le città sono sporche. La spazzatura ovunque
Non mi stupisco che scoppino epidemie anche nel regno animale. Ma la causa è l’uomo con i rifiuti e lo sporco che spande in giro.