Siccità è una parola dal suono antico, che richiama al pensiero immagini di società agricole. Oggi però è ritornata prepotentemente di attualità, come un monito: quello di porre una nuova attenzione a questioni primarie e legate alla sussistenza, come la disponibilità di acqua e cibo. È infatti l’agricoltura il settore che necessita di maggiori risorse idriche e impegna in Europa circa il 59% dell’acqua dolce. In questo contesto, l’Italia è il secondo Paese del continente per ricorso all’irrigazione nelle coltivazioni. Non a caso, le stime delle organizzazioni nazionali di categoria sui danni all’agricoltura previsti nel 2022 per la siccità oscillano tra 1 e 3 miliardi di euro. In particolare nel bacino del Po è a rischio il 50% circa della produzione agricola. La siccità ha infatti determinato un abbassamento del livello del più grande fiume d’Italia, che fornisce acqua a territori intensamente coltivati. La riduzione drastica della portata, unita all’abbassamento dell’alveo, contribuisce inoltre alla risalita del cuneo salino (acque marine) che in questi giorni è avanzato di 21 km, rischiando di compromettere, con le acque salate, l’irrigazione di colture già stressate dalla siccità (nel mese di giugno, all’altezza dei 20 chilometri dalla foce, la salinità dell’acqua ha raggiunto valori doppi rispetto agli anni passati).
Senza acqua, insomma, non solo non si beve, ma neppure si mangia. Ma qual è la situazione e quali sono i principali errori che sono stati commessi nella gestione dell’oro blu? Il nostro Paese, con circa 300 miliardi di metri cubi ogni anno di precipitazioni, è potenzialmente uno dei più ricchi d’acqua al mondo. La disponibilità effettiva di risorse idriche in Italia è, secondo alcune stime, di 58 miliardi di metri cubi, di cui quasi i 3/4 provengono da fiumi e laghi, mentre il 28% arriva da risorse sotterranee. Purtroppo, però, la disponibilità si sta riducendo e si assiste a un decremento del volume annuale di acqua che raggiunge il mare. Se mettiamo a confronto il periodo 2001-2019 con il periodo 1971-2000, si registra una riduzione del 15% della portata per il Tevere e di oltre l’11% per il Po.
Non tutti gli usi dell’acqua, però, si equivalgono: ci sono ovviamente impieghi prioritari e altri che, in situazioni di siccità, possono essere evitati. In primis, chiariscono dal Wwf: “Dobbiamo garantire l’acqua da bere, per l’uso civile, per la produzione di cibo e per mantenere il funzionamento degli ecosistemi. Ecco quindi che diventa cruciale, per favorire l’adattamento ai cambiamenti climatici, rivedere la distribuzione per i vari utilizzi (civile, agricolo, industriale o ricreativo) a fronte della sua minor disponibilità. Bisogna anche evitare gli usi che non ci possiamo più permettere”.
Un altro tema da sottolineare è quello delle perdite della rete idrica. Ogni 100 litri immessi 42 vanno persi e non arrivano ai rubinetti delle case. Gli italiani, inoltre, consumano più acqua di tutti gli europei: circa 120-150 metri cubi per ogni famiglia in un anno, equivalenti a un consumo medio individuale di circa 220 litri d’acqua al giorno. I nostri corsi d’acqua sono stati canalizzati e cementificati, dragati e sbarrati. “Sono state ridotte le aree naturali di esondazione – sottolinea il Wwf – distrutte le fasce riparie costituite da boschi e zone umide, che creano quella vitale ‘spugna’ che favorisce la ritenzione delle acque e la ricarica delle falde durante le piene, rilasciandola progressivamente durante i periodi di siccità e contribuendo ad attenuare gli effetti dei cambiamenti climatici. Come se non bastasse abbiamo bonificato e cancellato il 66% delle zone umide, cruciali per i servizi ecosistemici* che garantiscono e per mitigare gli effetti nefasti della crisi climatica”.
Tra gli aspetti critici evidenziati dall’associazione ambientalista spicca il frazionamento della gestione dell’acqua tra numerosi enti, alla base della mancanza di un’adeguata pianificazione e probabilmente anche di molti degli errori di gestione. La Direttiva quadro Acque (2000/60/CE) individua nelle Autorità di bacino distrettuali gli enti che dovrebbero garantire una visione unitaria e gli indirizzi per una gestione sostenibile. Da anni però questi sono marginalizzati e le Regioni controllano direttamente la gestione del rischio idrogeologico, gran parte delle concessioni d’uso e le politiche agricole, senza coordinarsi tra di loro e perdendo un’indispensabile visione a livello di bacino idrografico. La disponibilità complessiva dell’acqua dipende poi anche dal modo con cui viene utilizzata e rilasciata nell’ambiente. In alcune aree d’Europa, l’inquinamento causato da pesticidi e fertilizzanti utilizzati in agricoltura rimane una delle cause principali della scarsa qualità delle acque, che diventano non più disponibili e, come ha evidenziato l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), anche su questo fronte la situazione italiana non è delle migliori. Dei dati riportati nell’ultima edizione del Rapporto nazionale pesticidi nelle acque, risultano 299 sostanze inquinanti nelle acque interne campionate: sono stati trovati pesticidi nel 77,3% dei siti di monitoraggio delle acque superficiali e nel 32,2% dei siti di quelle sotterranee.
Per affrontare la crisi, il Wwf suggerisce di ispirarsi a quello che la natura ha sempre fatto: sfruttare il funzionamento degli ecosistemi per trattenere l’acqua, renderla disponibile e ricaricare le falde, soluzioni che oggi si chiamano con la sigla inglese Nbs (Nature Based Solution). Il secondo suggerimento è quello di rinaturalizzare e ripristinare il funzionamento ecologico dei fiumi, aumentando la capacità di assorbimento delle aree situate a fianco delle rive. Rigenerare le zone umide, veri bacini naturali di raccolta d’acqua che, a differenza dei bacini artificiali, non interrompono il ciclo dell’acqua aumentando lo stress idrico.
Un altro punto decisivo è rappresentato dalla protezione del suolo. Si tratta delle foreste naturali e di tutte le zone umide rimaste che hanno il compito di ricaricare le falde freatiche combattendo l’impermeabilizzazione e il consumo dei suoli che in Italia avanzano al ritmo di 16 ettari al giorno. Occorre poi ridare centralità alle Autorità di bacino, perché ci sia una regia unica che programmi gli usi dell’acqua in base alla reale situazione della risorsa e alle priorità, in un’ottica di adattamento ai cambiamenti climatici. Rivedere le concessioni idriche dando priorità agli usi idropotabili, all’agricoltura e all’ambiente, evitando utilizzi impropri o obsoleti, come per la produzione di neve artificiale. È infine naturalmente importante combattere lo spreco e incentivare il risparmio. “Prima imbocchiamo questa strada – dichiarano dal Wwf – meno ne risentiranno le nostre vite e la stessa economia. Rimane prioritaria la necessità non procrastinabile, richiamata anche nell’ultimo rapporto dagli scienziati dell’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), di abbattere rapidamente le emissioni di gas climalteranti, per scongiurare il pericolo di un clima che renda impossibile l’adattamento della natura come la conosciamo e, in particolare, della specie umana”.
Di fronte alla siccità, anche Greenpeace lancia l’allarme, ma pone l’accento su aspetti diversi, come quello relativo all’impiego delle colture per l’allevamento. “Sono a rischio soprattutto colture come mais e soia – dichiara Simona Savini, della campagna agricoltura di Greenpeace Italia – la cui reperibilità sul mercato è già complicata dalla guerra in Ucraina. Si tratta però di materie prime non destinate al consumo umano e quasi interamente indirizzate alla filiera zootecnica. C’è dunque bisogno di ripensare il sistema degli allevamenti intensivi che, oltre ad avere impatti importanti sul clima, consuma oltre un terzo di tutta l’acqua usata dal settore agricolo, anche per le grandi estensioni di terreni irrigui dedicati alla produzione di mangimi. Queste percentuali mostrano che stiamo utilizzando in modo poco efficace risorse naturali sempre più scarse, come l’acqua, e proprio per questo è urgente ridurre subito il numero di animali allevati”.
Dopo il riso, infatti, il mais è la seconda coltivazione italiana per consumi irrigui (circa il 20% del totale). Greenpeace ritiene perciò preoccupanti le intenzioni del Mipaaf e di alcune organizzazioni di categoria di seminarlo sui terreni cosiddetti ‘a riposo’, approfittando delle deroghe concesse dall’Unione europea in risposta alla crisi connessa al conflitto in Ucraina. Per l’organizzazione ambientalista è necessario piuttosto proteggere i terreni agricoli da ulteriori stress, affinché possano continuare a essere produttivi negli anni a venire. Questo significa rafforzare e non derogare a quelle misure ambientali che, proteggendo l’ambiente, tutelano anche la salute e la fertilità dei suoli e delle aree agricole, per esempio aumentando la loro capacità di trattenere umidità. Continuare a usare terreni, risorse naturali e acqua per alimentare un sistema di produzione zootecnica intensiva è un errore che non va più commesso.
*Servizi che i sistemi naturali generano a favore dell’uomo: secondo la definizione proposta dal Mea – Millennium Ecosystem Assessment, i servizi ecosistemici sono i “molteplici benefici forniti dagli ecosistemi al genere umano”. Si dividono in s.e. di regolazione, s.e. di approvvigionamento, s.e. culturali.
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