Olio di palma: il quotidiano britannico The Guardian sta portando avanti una campagna contro l’uso spregiudicato del grasso che ormai ha anche invaso la tavola degli italiani
Olio di palma: il quotidiano britannico The Guardian sta portando avanti una campagna contro l’uso spregiudicato del grasso che ormai ha anche invaso la tavola degli italiani
Redazione 21 Gennaio 2015Il sito del quotidiano britannico The Guardian sta portando avanti dallo scorso novembre una campagna sul tema dell’olio di palma e sull’importanza delle coltivazioni sostenibili. La campagna prende in esame molti degli argomenti, trattati anche da Il Fatto Alimentare negli ultimi mesi, che ci hanno portato a lanciare una petizione contro l’invasione dell’olio di palma ottenendo più di 97000 adesioni. Anche nel caso dello speciale del Guardian (sponsorizzato, va detto, da RSPO, iniziativa internazionale per la certificazione e la promozione dell’olio di palma sostenibile), il punto di partenza è la constatazione della grande pervasività dei prodotti contenenti questo ingrediente, non solo in ambito alimentare. Come ricordano vari articoli, il palma si trova nel 50% dei prodotti che compriamo al supermercato, dal dentifricio al cioccolato, dallo shampoo al pane per toast. In Italia è eclatante per esempio il caso dei biscotti, che contengono olio di palma nel 94% dei casi.
Ma da dove viene questo grasso? Il Guardian risponde con un suggestivo documento multimediale e interattivo, che racconta la vita dell’olio di palma dai luoghi di produzione agli scaffali delle nostre cucine. Il viaggio comincia nelle foreste tropicali del Sud-Est Asiatico – Indonesia e Malesia in particolare – che sempre più spesso vengono abbattute per lasciare il posto alle coltivazioni di Elaeis guineensis, la palma produttrice. Un efficace contatore a margine dell’approfondimento illustra quanta foresta va perduta nel tempo di lettura dell’infografica. Il problema è che queste foreste rappresentano un patrimonio di biodiversità vegetale e animale – simboleggiata dall’orangutan, sempre più a rischio per la perdita degli habitat – ma anche una riserva d’acqua e un sistema di protezione contro l’erosione dei suoli. La loro distruzione comporta significative ripercussioni ambientali, compreso un incremento di gas serra in atmosfera e costituisce una perdita economica. Come riportato dal Guardian, ricercatori americani e olandesi hanno calcolato il valore economico del Leuser National Park di Sumatra, in Indonesia, nell’ipotesi di un doppio destino: conservazione ambientale oppure deforestazione per lasciare posto alla coltivazione di palma da olio e caucciù. Ebbene, nel primo caso il valore stimato è di 128 dollari l’anno per ettaro, nel secondo solo di 91 dollari.
Le conseguenze dell’espansione delle monocolture di palma, però, non riguardano solo l’ambiente, ma anche le popolazioni locali. Se alcuni agricoltori beneficiano delle nuove coltivazioni, potendo contare su fonti stabili di guadagno (come racconta nel documento multimediale la testimonianza audio di Supriyono), altri soffrono per la progressiva perdita sia dell’ambiente forestale sia di eventuali raccolti differenti. È la triste vicenda di Laskar Harianja, che ha perso la sua piccola piantagione di ananas per gli incendi provocati nelle foreste. Senza contare le storie di land grabbing, di sfruttamento dei lavoratori, di espropriazione dei contadini dalle proprie terre. Tutti effetti che difficilmente sono destinati a scomparire, se la richiesta di olio di palma continuasse ad aumentare. Del resto, in paesi come India e Cina questo olio è sempre più utilizzato in cucina, mentre nel mondo occidentale sono le grandi industrie alimentari e cosmetiche a impiegarne quantità crescente, perché è un ingrediente versatile e a basso costo, come spiega questo articolo del Guardian e come aveva già raccontato anche Il Fatto Alimentare.
Le alternative sembrano scarse, considerato che altri oli vegetali, come soia o colza, non mostrano le stesse performance, e che le coltivazioni di partenza hanno rese inferiori della palma, con richieste di fertilizzanti, pesticidi e input energetici superiori. Per superare il problema, l’approfondimento del Guardian insiste molto sul tema della produzione sostenibile, attenta cioè a parametri ambientali e sociali, secondo quanto proposto dall’RSPO. Non tutti i critici del palma, però, approvano questa soluzione, ritenendo l’RSPO un organismo troppo debole, per sua natura, per garantire azioni davvero efficaci. Si tratta di un’iniziativa che mette insieme diversi “attori” della filiera: dai produttori alle aziende utilizzatrici, ma senza un coinvolgimento diretto dei governi interessati. Alcuni ritengono che i principi previsti dall’organismo per la certificazione dell’olio sostenibile siano troppo vaghi sul fronte ambientale (per esempio si parla genericamente di “conservazione delle risorse naturali e della biodiversità”) e poco incisivi su politiche sociali e sulla protezione dei diritti delle popolazioni indigene.
Oltre alla sostenibilità, però, c’è un’altra via da percorrere, quella indicata anche dal Il Fatto Alimentare con la sua petizione: la riduzione massiccia dell’utilizzo di olio di palma da parte delle industrie alimentari e la sua sostituzione con altri grassi vegetali non idrogenati o con burro. Diverse aziende e catene della grande distribuzione – da Heinz/Plasmon a Coop, da Ikea a Esselunga, solo per citarne alcune – hanno già risposto all’appello, annunciando lo sviluppo di nuove misure in questa direzione.
Valentina Murelli
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La soluzione va ricercata nella sovranità alimentare e la produzione diffusa di fonti di grassi variate, compatibili con i diversi ecosistemi.
La favola di RSPO, secondo cui non esiste coltura da olio più efficace, ricorda quella dei petrolieri, altrettanto credibile in termini di capacità combustibile.
Ma i ‘side effects’ sono inaccettabili, nell’ultimo come nell’altro caso.
Ricordiamo che la palma da olio i viene prodotta in sole aree tropicali, a discapito di foreste vergini e popolazioni che le abitano e utilizzavano con modalità eco-compatibile.
Altre colture da olio, a partire dal girasole, si prestano invece a diversi climi e perciò possono venire realizzate – nel rispetto dell’ambiente – a varie latitudini, portando a frutto terreni sinora incolti che abbondano in ogni dove.
Come recentemente emerso nella Conferenza sul Cibo tenuta a Harvard infatti, il punto non é produrre di più ma produrre meglio, dal punto di vista della distribuzione geografica e sociale
Che la coltura della palma sia la più efficace, come scrive, non è una favola dell’ RSPO:
per rimanere nell’esempio che cita, la coltura del girasole, a parità di olio prodotto, necessità un utilizzo di superficie coltivata quasi triplo rispetto alla palma.
…e sinceramente non vedo tutta questa abbondanza di terre fertili incolte: nelle Marche, sd esempio, le colture di girasole insieme a “quelle” di pannelli fotovoltaici sono andate ad occupare terre fino a poco prima coltivate a grano, di cui, allo stesso tempo, ne importiamo per il 50% del nostro fabbisogno.
Non è così semplice (la sostituzione della palma) e non sempre è bello ciò che sembra bello (in questo caso il fotovoltaico).
Certo non esiste la bacchetta magica ma le foreste continuano ad essere disboscate per lasciare spazio a nuove coltivazioni . Questo è il dato preoccupante .
Sono perfettamente d’accordo sulle vostre riflessini sull’impatto sociale e ambientale di queste produzioni. Ottime in questo senso mi paiono le proposte dell’Avvocato Dongo.
Ma davvero ridicola è la vostra proposta di sostituire l’olio di palma con il burro. Davvero avreste il coraggio di sostenere che la produzione di burro, e quindi l’industria (intensiva e inumana) dell’allevamento, sia sostenibile a livello ambientale e sociale?
La sostituzione del palma con il burro è una possibilità, le altre riguardano olio di girasole, mais … . Sul sito abbiamo realizzato tre elenchi di prodotti che non contengono il palma (http://www.ilfattoalimentare.it/olio-di-palma-biscotti-tab.html) http://www.ilfattoalimentare.it/nutella-palma.html
Infatti, neanche il burro può sostituire la palma, se non in quantità percentualmente insignificanti nella produzione globale.
Ed è sostenibile nella misura in cui usiamo burro italiano, ‘prodotto secondario di lavorazione’ del Parmigiano e del Grana Padano.