Gli spillover, come quello probabilmente avvenuto a Wuhan con il coronavirus, si possono e si dovrebbero prevenire. Lo dimostra, ancora una volta, uno studio sul campo, che si è svolto tra il 2015 e il 2017 (e quindi in tempi non sospetti) in un paese simile alla Cina dal punto di vista della filiera alimentare, il Vietnam, pubblicato ora su eLife dai ricercatori che vi hanno preso parte, appartenenti a diversi centri di ricerca internazionali tra cui l’Università della Pennsylvania e la Oxford University Clinical Research Unit (OUCRU) di Ho Chi Minh City.
Oggetto di studio era l’influenza aviaria e, in particolare, quella che colpisce periodicamente gli allevamenti di pollame. Gli autori hanno voluto verificare che cosa accadeva in 53 piccole fattorie poste lungo il fiume Mekong nell’arco dei mesi e in condizioni diverse, per vedere se ci fossero comportamenti che potevano far aumentare il rischio. Particolare attenzione è stata posta soprattutto quando c’erano segnali di una possibile infezione respiratoria che poteva essere influenza aviaria, e poi sull’andamento delle vaccinazioni e delle sanificazioni.
A tale scopo hanno messo a punto dei sistemi di valutazione quantitativi e hanno dimostrato che quando un allevamento mostrava i segni di un contagio tra gli animali, ma senza che si verificassero decessi, la macellazione o l’avvio ai mercati aumentava del 56%. Quando invece c’erano morti improvvise (considerate segno molto forte di presenza di aviaria, che spesso causa il decesso il giorno dopo i primi sintomi), tale valore saliva al 214% rispetto al periodo precedente. I piccoli allevatori, quindi, appena vedevano qualche indizio preoccupante si precipitavano a vendere i capi, per evitare di doverli poi sopprimere. Un comportamento che, in tutta evidenza, moltiplica enormemente i rischi. Un altro dato sorprendente è stato poi quello sulle disinfezioni: la loro frequenza non aveva alcuna relazione con l’arrivo dell’influenza, e ciò significa che non c’era una forte preoccupazione sulla possibile espansione del contagio.
Infine, anche le vaccinazioni avevano un andamento poco prudente, perché il loro numero aumentava esponenzialmente con il numero dei polli allevati: se era pari o inferiore a 16 erano praticamente assenti, ma via via aumentavano, fino ad arrivare al 100% dai 200 capi in su, come se non bisognasse temere l’infezione anche di pochi animali. Secondo gli autori, ciò dipende probabilmente da motivazioni economiche: i piccolissimi allevatori non hanno il denaro necessario per pagare il veterinario e il vaccino, o comunque non pensano che tale costo sia controbilanciato dal fatto di tenere i polli al sicuro. E tutto ciò è possibile perché in Vietnam non ci sono controlli ma le vaccinazioni sono su base volontaria.
La corsa alla vendita comporta il contatto ravvicinato con altri animali non infetti e persone, spiegano ancora gli esperti, e andrebbe evitata a ogni costo. E la responsabilità non è solo degli allevatori: anche le autorità potrebbero fare molto. Per esempio, potrebbero finanziare piani vaccinali e rimborsare le perdite dei piccoli allevatori, e intervenire per controllare in quei mercati dove arrivano animali troppo giovani, o in numero superiore alla norma, indizio spesso di situazioni da verificare. Oltre a questo, potrebbero inserire gli animali malati in circuiti che riutilizzano le carni senza rischi quali quelli dei mangimi per animali allevati e carnivori come i coccodrilli. Infine, dovrebbero definire con rigore passaggi controllati e standardizzati per l’allevamento e la macellazione, e operare anche a livello culturale, perché non sarà probabilmente mai possibile controllare milioni di piccole fattorie, nella maggior parte delle quali sono allevati meno di cento polli. Evitare gli spillover, o quantomeno ridurre moltissimo il rischio che si verifichino, è possibile. A patto di volerlo fare.
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Giornalista scientifica