Il tiramisù vegano mangiato da Anna Bellisario, la ventenne milanese che un anno fa morì di shock anafilattico, conteneva mascarpone. Lo rivela, in un comunicato riportato da diversi organi di stampa, la procura Milano, che ha emesso una misura interdittiva temporanea dell’esercizio di attività imprenditoriali nei confronti di Giovanna Anoia e Giuseppe Loiero, i due responsabili dell’azienda produttrice del ‘Tiramisun’, la Glg Srl. Entrambi sono anche indagati per omicidio colposo.
Il caso di shock anafilattico
La vicenda inizia il 26 gennaio 2023, quando Anna Belisario era a cena con il fidanzato in un locale del centro città. La giovane, allergica a latte e uova, aveva avvisato lo staff del ristorante delle sue allergie. Dopo poche cucchiaiate di tiramisù vegano, la ragazza si è sentita male. Tuttavia, dopo 10 giorni di coma al San Raffaele, la giovane è deceduta il 5 febbraio. Le indagini si sono concentrate subito su ‘Tiramisun’, il tiramsù vegano prodotto da Glg Srl. Le prime analisi qualitative hanno infatti accertato la presenza di proteine del latte nel prodotto (leggi qui il nostro resoconto del caso di shock anafilattico). Non era nemmeno menzionata in etichetta la possibile presenza di tracce di latte nel prodotto, visto che nello stabilimento si producevano sia prodotti vegani che convenzionali.
Le indagini sui produttori del tiramisù vegano
Non si tratterebbe, però di una contaminazione accidentale, come si era ipotizzato all’inizio. “La quantità di caseine riscontrata nel prodotto in questione indica che il mascarpone era presente nel preparato come ingrediente e non come ‘semplice’ contaminante”, fa sapere la procura. Inoltre, secondo quanto scrive la gip di Milano, Fiammetta Modica, nell’ordinanza di interdizione l’azienda preparata “i prodotti vegani e non vegani nello stesso ambiente, in contemporanea e sullo stesso tavolo”.
L’attività investigativa, poi, ha rivelato “fin da subito” molte criticità nelle procedure produttive adottate dall’azienda. I problemi più gravi riguardavano la formazione dei dipendenti e la “prevenzione, eliminazione e/o riduzione dei pericoli” nella fase di produzione. Gli atti dell’inchiesta contengono anche diverse intercettazioni che mostrano come la responsabile delle linee produttive, Giovanna Anoia, sottovalutasse la tipologia di consumatori e consumatrici cui il prodotto poteva essere destinato. “Quando tu produci un prodotto così non pensi agli allergici, tu lo stai facendo per i vegani, non per gli allergici”, diceva Anoia in una conversazione intercettata il 23 febbraio 2023.
Altre intercettazioni dimostrano, secondo il Gip, che Giuseppe Loiero avrebbe creato “a posteriori” un dettagliato registro di formazione dei dipendenti. Formazione che invece era inadeguata: un dipendente, ad esempio, aveva seguito solo un corso di carattere generale “quattro ore sulla normativa vigente in tema di igiene degli alimenti”
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Giornalista professionista, redattrice de Il Fatto Alimentare. Biologa, con un master in Alimentazione e dietetica applicata. Scrive principalmente di alimentazione, etichette, sostenibilità e sicurezza alimentare. Gestisce i richiami alimentari e il ‘servizio alert’.
Non si può morire per simili “leggerezze”; d’altro canto, come scrivevo tempo fa:
“Non ci divertiamo a vivere con la paura […] che al ristorante alla domanda circa gli ingredienti di una pietanza ci sia un cameriere che risponda in maniera superficiale, senza magari rendersi conto che se uno ti dice che è allergico alla nocciola, non puoi dargli un dessert dove c’è la Nutella (o prodotto equivalente).”
vedi: https://wp.me/pjP1E-sB2
Di questa tristissima vicenda mi è rimasta impressa la superficialità di “imprendere un’attività”. Cioè il significato del “fare impresa”, che implica necessariamente un impegno contrattuale con ALTRI, sia esso una ditta, una persona, un Ente, ecc.. Cioè capire quello che stai facendo e per chi, rispettandone le richieste. In cambio di denaro ovviamente. Non è una transazione di beneficenza o basata sul volontariato. Istruzione eformazione professionale sono necessari ingredienti di tutte le attività lavorative, anche delle più semplici. E qui mancano …
Ma sarei curioso anche di conoscere quali procedure il cliente – in questo caso il ristorante – adotta per verificarne la qualità; c’è un capitolato che impegna il laboratorio di pasticceria, c’è una richiesta periodica di fornire dati sulla qualità?
In questo caso sarebbe bastato semplicemente richiedere un’etichetta con gl’ingredienti.
Già la famosa etichetta sugli alimenti tanto bistrattata, odiata, aggirata, additata come limite alle vendite, pasticciata con grafiche surreali o illeggibili; palesemente false in certi casi o comunque in grado di disorientare, disinformare, manipolare, sedurre, il consumatore.
Insomma un controllo di qualità semplice da farsi per un ristorante che, intenzionato a proporre un prodotto realizzato da altri, lo acquista non per la propria famiglia, ma per “fare impresa”, cioè vincolarmi contrattualmente con un cliente che in cambio di denaro riceve del cibo e un servizio di qualità.
Un CONTROLLO DI QUALITA’ … appunto. Che ormai sembra sparito dal vocabolario, purtroppo.
Secondo lei un ristoratore che compra un prodotto confezionato in mono-porzione (mi pare così fosse stato descritto il prodotto a suo tempo) dovrebbe fare un’analisi per verificare la rispondenza di ciò che è indicato in etichetta?
Un prodotto vegano non contiene proteine del latte, il ristoratore non può porre rimedio agli errori del produttore del tiramisù, anche se a causa di ciò avrà subito enormi perdite economiche nella sua attività.
Monoporzione o meno, i controlli si fanno anche al momento dell’acquisto:
” c’è un capitolato che impegna il laboratorio di pasticceria, c’è una richiesta periodica di fornire dati sulla qualità?
In questo caso sarebbe bastato semplicemente richiedere un’etichetta con gl’ingredienti.”