In tutte le cucine ci sono oggetti che rilasciano microplastiche, e che per questo destano qualche preoccupazione: i taglieri. Da diversi anni, infatti, quelli in plastica hanno quasi del tutto rimpiazzato quelli in legno grazie alla loro leggerezza, alla semplicità di lavaggio, alla resistenza in lavastoviglie, al costo molto contenuto e anche alla sicurezza microbiologica, più certa rispetto a quella data dal legno.
Poi però si è iniziato a capire che molti prodotti di uso comune, presenti nelle abitazioni e non solo, potevano essere all’origine della contaminazione da nano e microplastiche dell’ambiente e degli organismi viventi, e i taglieri sono finiti sotto accusa, anche se spesso le particelle rilasciate sono troppo grandi per essere assorbite.
Per fare chiarezza e spiegare esattamente che cosa si è scoperto finora, Time dedica al tema un lungo articolo, nel quale alcuni dei ricercatori che si sono occupati dell’argomento commentano i risultati disponibili.
Un taglio, quante microplastiche?
La prima domanda che ci si pone è quante microplastiche siano prodotte ogni volta che si usa un tagliere. Secondo uno degli ultimi studi, ogni coltello genera, a ogni taglio, tra le cento e le trecento microplastiche, la metà delle quali, secondo un’altra ricerca, resta sul tagliere, andando a contaminare le acque reflue ma non il corpo umano. L’altra metà, invece, rimane sul cibo appena tagliato.

Da qui, secondo un’indagine dei ricercatori dell’università del Nord Dakota arriva all’organismo. Considerando le carote tagliate mediamente in un anno da persone che ne mangiano abitualmente, i ricercatori hanno concluso che l’assunzione di microplastiche non è irrilevante, anzi.
Tuttavia, potrebbe esserci una sovrastima, perché si sono considerate assorbibili anche microplastiche che forse non lo sono in quanto troppo voluminose.
Le dimensioni
Già, le dimensioni. Non tutte le particelle riescono a depositarsi nel fegato o nell’intestino, perché quando il diametro è oltre una certa misura, secondo la maggior parte degli esperti la plastica viene semplicemente espulsa. Stando ad alcuni test, il limite sarebbe di dieci micrometri, cioè millesimo di millimetro. Secondo altri esperimenti, e in particolare in base a quanto riportato in una ricerca condotta sul pesce e sul pollo crudi, tagliati dai macellai e dai pescivendoli, dai ricercatori dell’Università degli Emirati Arabi Uniti, la soglia sarebbe un po’ più alta, attorno ai 15 micrometri. Anche se il taglio professionale (e spesso energico) potrebbe generare microplastiche un po’ più grandi rispetto a quanto non accada a casa.
Peraltro, nello stesso studio si è anche dimostrato che lavare per un minuto la carne o il pesce dopo averli tagliati elimina solo in piccola parte le microplastiche (che così finiscono negli ecosistemi), mentre la maggior parte rimane nel cibo.
Un altro fattore da considerare è il tipo di alimento: alcuni richiedono tagli energici, altri no, e lo stesso vale per la forza applicata sul coltello. Anche i taglieri, poi, invecchiano, e più sono vecchi più rilasciano microplastiche e sostanze, anche se tutto dipende dalla frequenza dell’uso e dall’esposizione ad agenti quali il calore o i detersivi.
La fisica e la chimica
Il punto però è che non desta preoccupazione solo il passaggio delle microplastiche e l’accumulo negli organi, ma anche il trasferimento di additivi. La sola presenza nell’organismo di materiali plastici, infatti, può costituire un fattore di rischio, perché i polimeri usati, anche se approvati dalle autorità sanitarie, contengono decine di sostanze potenzialmente nocive che, per di più, possono essere rilasciate con maggiore facilità a causa del riscaldamento o delle lavorazioni in cucina.
Il cibo infatti, dopo essere stato tagliato o tritato, quasi sempre viene cotto sui fornelli, in forno o nel microonde. Ma il riscaldamento può liberare gli additivi plastificanti e di altro tipo, che quasi sempre hanno bassi punti di fusione, e ovviamente la frittura e la cottura sotto pressione, da questo punto di vista, sono ancora più potenti. Anche i condimenti oleosi e in generale gli alimenti ricchi di grassi possono favorire il rilascio di alcune sostanze. Lo stesso fenomeno, del resto, può avvenire anche al contrario, e cioè quando un alimento è cotto intero non a contatto con plastiche, ma poi si taglia mentre è ancora caldo su un tagliere di plastica (come avviene comunemente nei ristoranti).

I dati sugli animali
Anche se sono state condotte ormai diverse ricerche, quasi nessuna è stata effettuata direttamente sugli esseri umani. Nei modelli animali, ciò che si è visto in topi alimentati per alcuni mesi con pasti lavorati in taglieri realizzati con diversi tipi di plastica oppure di legno è che il primo gruppo mostrava i segni di un’infiammazione intestinale e una disbiosi (un’alterazione del microbiota), mentre quello i cui pasti erano stati lavorati sul legno no. Il riscontro è stato confermato anche se non sono state trovate microplastiche nell’organismo, fatto che suggerisce che a esercitare le azioni dannose siano state alcune delle sostanze rilasciate dalle plastiche, più che i frammenti.
Le alternative ai taglieri di plastica
Le possibili alternative non sono esenti da criticità. I taglieri in legno, che sono i più comuni dopo la plastica, possono infatti essere oggetto di contaminazioni microbiche, perché il legno è più poroso e più delicato, e permette il passaggio di umidità e residui di cibo, anche se il rischio è considerato basso se dopo ogni utilizzo si pulisce accuratamente. Inoltre il legno è molto suscettibile al lavaggio in lavastoviglie, che sarebbe meglio evitare.
Probabilmente il giusto compromesso è utilizzare un tagliere in plastica per la carne e il pesce crudi, e uno in legno per tutto il resto. Senza dimenticare che anche il legno invecchia e sarebbe meglio sostituirlo ogni volta che presenta fessure o linee scure (che segnalano la presenza di colonie batteriche). Le microparticelle di legno rilasciate durante il taglio, invece, non sembrano destare troppe preoccupazioni: possono essere gestite dall’apparato digerente, essendo di origine vegetale. Una fonte di sostanze poco desiderabili sono infine le colle con le quali sono tenuti insieme i pezzi di legno nei taglieri, costituiti quasi sempre da unità più piccole. Si tratta comunque di colle che devono essere approvate per un impiego alimentare dalle autorità sanitarie, come pure le plastiche. Esistono poi taglieri in vetro, acciaio che sono poco porosi e si possono (solitamente) lavare in lavastoviglie e quelli in bamboo.
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Giornalista scientifica



Nel dubbio noi usiamo taglieri in inox
Ehm, con taglieri in acciaio l’affilatura dei coltelli dura qualche minuto (Vabbè magari non solo qualche minuto, però…)
Dei geni.
Buongiorno, trovo l’articolo interessante. Mi chiedo quale sia l’effetto dei taglieri in HPL. La lamina superficiale è sempre plastica? Costano tanto, anche svariate volte un tagliere in plastica (5€ vs 150€), ma portano reali benefici? Io ne ho uno che ha la superficie ovviamente con micro incisioni quindi quel materiale da qualche parte è finito.. ma non è minimamente paragonabile ai segni che ho sui taglieri in plastica usati molto bene. Grazie
da quanto mi risulta, i taglieri in HPL impiegano delle resine formate anche a partire dalla formaldeide. non ho competenze chimiche, ma, comunque, ne eviterei l’uso in cucina.
Oddio, la formaldeide nei taglieri mi pare un po’ troppo. Dove l’hai sentita questa informazione? Se una azienda rinomata, che produce lavelli di alta gamma, fra gli accessori propone dei taglieri spero di potermi fidare che non contengano composti cancerogeni.
Sarebbe interessante che qualcuno cominciasse a misurare le cariche batteriche su legno e plastiche e fare dei confronti.
Tra l’ altro si possono usare gli UV per eliminare i batteri dal legno.
Io uso tagliere in vetro.