Sede dello stabilimento di produzione in etichetta: sì o no? Il dibattito non si arresta e ruota intorno alle norme nazionali in contrasto con quelle comunitarie
Sede dello stabilimento di produzione in etichetta: sì o no? Il dibattito non si arresta e ruota intorno alle norme nazionali in contrasto con quelle comunitarie
Redazione 9 Febbraio 2015Il dibattito sulla necessità di mantenere la sede dello stabilimento di produzione sulle etichette degli alimenti è ancora aperto. Di seguito pubblichiamo un intervento di un nostro lettore, Luigi Tozzi, e la risposta di Dario Dongo, avvocato esperto di diritto alimentare.
Scrive Luigi Tozzi
Il sottosegretario Vicari l’altro giorno in risposta ad un’interpellanza (l’ennesima) sulla questione dello stabilimento di origine ha dichiarato.
“Per quanto concerne l’osservazione che «a decorrere dal 13 dicembre 2014, a causa della mancata notifica del Governo italiano alla Commissione europea, la prescrizione italiana di mantenere l’obbligatorietà di indicare in etichetta la sede dello stabilimento di produzione alimentare per i prodotti realizzati e commercializzati in Italia, non è stata mantenuta, nonostante il Governo abbia espresso più volte la volontà di intervenire», si rammenta che l’articolo 38 del regolamento (UE) n. 1169/2011, in materia di etichettatura degli alimenti, dispone il divieto, da parte degli Stati membri, sia di adottare, sia di mantenere norme nazionali in contrasto con le materie armonizzate dal regolamento stesso.
Pertanto, il regolamento citato elimina per gli Stati membri la facoltà, precedentemente prevista dalla direttiva 2000/13/CE, di «mantenere le disposizioni nazionali che impongono l’indicazione dello stabilimento di fabbricazione o di confezionamento per la loro produzione nazionale». L’individuazione delle indicazioni obbligatorie da riportare in etichettatura, come disciplinata dagli articoli 9 e 10 del regolamento, è infatti una materia armonizzata, tant’è che il successivo articolo 39 disciplina le «Disposizioni nazionali sulle indicazioni obbligatorie complementari», ovvero la facoltà degli Stati membri di introdurre l’obbligo di riportare in etichetta ulteriori indicazioni.”
Fatevene una ragione. Non si può andare (e chiedere di andare) contro la legge.”
Luigi Tozzi
Risponde Dario Dongo
Sembra a dir poco curioso che proprio ora l’Italia – dopo aver emanato varie leggi in palese contrasto con l’aquis communitaire (tra cui ricordiamo la L. 204/2004, che all’articolo 1-bis imponeva l’indicazione obbligatoria dell’origine delle materie prime sulle etichette di tutti gli alimenti) – si trinceri dietro ipotetiche questioni interpretative del diritto comune.
Tanto più che lo stesso regolamento (UE) 1169/2011 all’articolo 39, comma 1, definisce una serie di condizioni, per legittimare le norme nazionali concorrenti, e tali condizioni ricorrono tutte nel caso che ci occupa:
“a) protezione della salute pubblica;
b) protezione dei consumatori;
c) prevenzione delle frodi;
d) protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, delle indicazioni di provenienza, delle denominazioni d’origine controllata e repressione della concorrenza sleale.”
Per essere “più realisti del re”, si tratta solo semmai di limitare il campo di applicazione della norma nazionale – in fase di notifica – a una serie di categorie di prodotti. A tal fine, basta escludere quelli rispetto ai quali già la normativa europea (generale e/o di settore) già prescrive idonee informazioni, quantomeno sul Paese di origine. Vale a dire ortofrutta, carni, prodotti ittici freschi, uova, miele, oli vergini di oliva, passate di pomodoro etc.
Dario Dongo
La replica di Luigi Tozzi del 10 febbraio 2015
Caro Dario
La questione deve essere posta a livello europeo e non con decreti nazionali che poi sono bocciati o danno origine a procedure d’infrazione. Sai bene che tante volte è successo, specie se la norma è chiara come ora. Sono convinto che il problema della mancato obbligo di indicare lo stabilimento di produzione non sia solo italiano ma europeo e pone come dicevi in altri articoli problemi di delocalizzazione comuni a tutti i paesi europei.
Per tale motivo sarebbe più utile e producente che la questione sia sollevata a livello politico nel prossimo Consiglio Europeo dall’Italia, così da costituire un blocco politico da contrapporre alla Commissione. Direi che non conviene all’Italia andare a fare uno scontro con la Commissione da sola.
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Il Fatto Alimentare e Great Italian Food Trade hanno promosso una petizione per ripristinare l’obbligo di inserire in etichetta lo stabilimento di produzione.
Per sottoscrivere la petizione clicca qui.
Foto: iStockphoto.com
Buongiorno,
io sono un giovane tecnologo alimentare e mi sento di voler contribuire al dibattito con la mia (modesta) opinione.
A mio parere, evidenziare lo stabilimento di produzione su prodotti alimentari sarebbe di aiuto nel consumatore medio, che, sballottolato tra le molteplici alternative per uno stesso prodotto (nel caso della GDO), sceglie e il più delle volte in maniera errata, valutando solo il nome di un marchio e il prezzo.
Tuttavia la qualità non è fatta solo di immagini e numeri, ma anche di scelte: scelte di materie prime, tipologia di trattamenti, riconoscimenti di eccellenza e capacità di soddisfare realmente e pienamente il consumatore.
Pertanto riportare la sede dello stabilimento di produzione non è soltanto un gesto di trasparenza, rispetto e trasparenza del consumatore, ma anche il voler chiaramente segnalare e promuovere attività di produzione di eccellenza che altrimenti verrebbero soppresse da logiche di quantitativi di vendita di massa lontani anni luce da politiche di qualità. E come tale va non solo chiesta, ma imposta a livello europeo.
Il mio non è un commento ma una domanda.
Indipendentemente dalla campagna per rendere obbligatoria l’indicazione dello stabilimento di produzione del prodotto, non esiste nulla che ne vieti l’indicazione spontanea in etichetta, vero? Cioè, un’azienda che voglia essere più trasparente e corretta verso i suoi consumatori può sempre indicare in etichetta questa informazione oppure, ahimè, la regolamentazione imposta dalla UE la obbliga ad ometterla?
Certo, le aziende possono volontariamente scrivere lo stabilimento di produzione e infatti molte lo fanno e lo continueranno a fare
Mi sono occupato di etichettatura per conto di un caseificio. Abbiamo scelto di indicare lo stabilimento di produzione. La mia osservazione è come fanno i tedeschi ad imporci di scrivere in etichetta il grasso sul secco, il TMC e le modalità di conservazione scritte una di seguito all’altra anche se tutto ciò non è previsto dal reg. 1169 ?
Per tutte le considerazioni ed i commenti letti, mi risulta sempre più evidente la profonda divergenza tra i diritti dei consumatori che insieme ai coltivatori/allevatori, non hanno il ben che minimo vantaggio dal nascondere ed ignorare l’origine delle materie prime, dove sono state trasformate ed anche confezionate, con l’interesse dei soli trasformatori/ confezionatori, che hanno tutti i vantaggi a nasconderlo.
Quindi è chiaro come la luce del sole, da che parte stanno le varie istituzioni nazionali ed europee, responsabili delle norme e delle loro applicazioni.
Ma chi li nomina questi commissari che producono e applicano norme a totale sfavore del 99% dei cittadini nazionali e comunitari?