
Il numero degli squali sta crollando in tutto il mondo. E la causa è soprattutto la pesca, sia quella volontaria, sia quale involontaria, nella quale gli squali vengono tirati su dalle reti anche quando non sono l’oggetto della battuta, per poi essere ributtati in mare, vivi o morti.
È un grido d’allarme quello che si leva dalle pagine di Fish and Fisheries, dove i ricercatori dell’Università della California di Santa Barbara cercando di fare un bilancio della situazione a livello mondiale, secondo quanto pubblicato negli ultimi anni. Gli squali sono a rischio estinzione ed è urgente intervenire con misure più incisive rispetto a quelle adottate finora, perché la loro scomparsa sarebbe catastrofica per tutto l’ecosistema marino.
La metanalisi sugli squali
Per capire a che punto siamo, i ricercatori hanno preso in esame 160 studi condotti negli ultimi anni su 147 specie di squali osservati in tutto il mondo, sia al momento della pesca, sulle imbarcazioni, che dopo il primo passaggio commerciale. Mettendo insieme tutti i dati, hanno poi creato un modello, e l’hanno applicato a 341 specie di squali, per arrivare ad avere un quadro il più possibile completo. Il quale ha mostrato che un terzo di tutti gli squali sono a rischio estinzione, a causa della pesca.

E che i divieti stabiliti per cercare di tutelare le popolazioni autoctone non sono sufficienti. Neppure quando obbligano a ributtare in mare gli esemplari ancora vivi, come accade per 17 specie oceaniche tutelate per evitare che siano vittime involontarie delle battute di pesca al tonno. La controprova è che, di tutti gli squali pescati e uccisi, circa uno su due è vittima del caso, cioè viene pescato da sistemi che non riescono a selezionare, e che tirano su tutto quello che trovano.
In generale, poi, le specie più minacciate sono risultate essere quelle di taglia inferiore come gli squali martello (Sphyrnidae) e gli squali volpe (Alopias supercicliosus), che nuotano in acque poco profonde, e quelli che hanno bisogno di respirare continuamente. Tra queste specie, la mortalità dopo la pesca oscilla tra il 30 e il 65%. Le specie più abissali sono invece più protette dalla pesca, ma in caso siano catturate non reagiscono affatto bene, probabilmente a causa dello shock pressorio subito durante la risalita troppo rapida, e muoiono anch’esse in percentuali allarmanti.
Che cosa fare
Sempre in base al modello, i ricercatori californiani hanno stabilito che i divieti definiti dalle autorità marittime locali per salvaguardare i banchi, se fossero applicati con scrupolo, potrebbero far diminuire di un terzo il numero di squali catturati e uccisi. Tuttavia – e questo dà la misura della gravità della situazione – ciò non sarebbe sufficiente per ripopolare fino a livello di sicurezza le specie più a rischio come il mako (Isurus oxyrinchus).
I divieti dovrebbero quindi non solo essere applicati con rigore, ma anche integrati da altre misure. Tra queste potrebbero esservi restrizioni alla pesca in aree specifiche quali quelle delle nursery e della riproduzione, le quote di cattura delle specie che hanno i tempi di riproduzione più rapidi come gli squali blu (Prionace glauca), e regole molto più stringenti sulle attrezzature permesse nelle zone dove vivono gli squali quali, per esempio, il divieto di usare i materiali più pericolosi come i fili di acciaio sui palangari.
Infine, la metanalisi ha anche fatto capire che c’è bisogno di molti più dati in generale, e in particolare di quelli sugli altri pesci cartilaginei come le razze e le mante: il 57% di specie di questi animali a rischio estinzione non sono squali, ma altri membri della famiglia. E di loro si sa ancora pochissimo.
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Giornalista scientifica