Si prenda tutto il cibo necessario a sfamare quasi tutta l’Italia per un anno (per un costo di 12 miliardi di euro) o quello che occorre per nutrire 44 milioni di persone. E lo si getti direttamente nella spazzatura, lo si lasci a marcire nei campi, lo si scarti prima della distribuzione perché imperfetto, ammaccato, in eccesso, lo si tolga dagli scaffali perché in scadenza. Eccola, in soldoni, la ricetta dello spreco tricolore messa per iscritto nel Libro Nero dello spreco in Italia: il cibo (Edizioni Ambiente, 12 €, 124 pagine) da Andrea Segrè e Luca Falasconi, che per la prima volta hanno quantificato molti aspetti di un fenomeno che ha molteplici implicazioni sociali ed economiche, oltre a quelle etiche.

Andrea Segré è il preside della facoltà di Agraria dell’Università di Bologna e da anni si occupa di sprechi; nel 1998 ha fondato il Last Minute Market, uno spin off accademico che sviluppa progetti territoriali volti al recupero dei beni invenduti (o non commercializzabili) a favore di enti caritativi, mettendo in piedi reti di recupero e distribuzione con costi minimi già adottati in oltre 44 comuni italiani.

Ma Segré è anche un ricercatore attento che compie molti studi sul campo, dagli allevamenti alle colture, dalle fabbriche agroalimentari fino alla distribuzione e alle mense. Così qualche anno fa, insieme a Luca Falasconi, ricercatore della sua facoltà, ha riunito esperti e ricercatori italiani ed europei ed è riuscito a dar vita al progetto Un anno contro lo spreco, patrocinato dal Parlamento europeo e dedicato quest’anno all’acqua (l’anno scorso al cibo, nel 2012 all’energia), nell’ambito del quale ha compiuto la prima analisi sistematica dello spreco alimentare italiano, con risultati impressionanti.

Professor Segrè, finalmente un po’ di numeri attendibili e chiari. Come li avete ottenuti?

«Incrociando ricerche nostre e di diversi autori, dati Istat, Fao e altri derivanti dalle associazioni dei produttori e distributori. In effetti, per quanto strano possa sembrare, non esistevano ricerche sistematiche compiute secondo tutti i crismi scientifici, ma soltanto analisi di singoli aspetti della questione: noi abbiamo cercato di integrare il tutto anche con dati nostri e di Last Minute Market, per giungere a stime attendibili. Abbiamo quindi ottenuto dati reali, che nel complesso descrivono una situazione preoccupante. Per esempio, ogni anno circa il 3,3% della produzione agricola (pari a oltre 17 milioni di tonnellate di prodotti) resta sul campo; l’industria alimentare spreca il 2,3% di ciò che fabbrica, cioè quasi due milioni di tonnellate, e la grande distribuzione trova conveniente distruggere (più che vendere o riutilizzare o donare) un altro 1,2% (il 40% costituito da prodotti ortofrutticoli)».

In realtà, per quanto riguarda la grande distribuzione, va ricordato che esistono due fonti di spreco completamente differenti. Ogni anno una catena di supermercati di grandi dimensioni ritira dagli scaffali 5-600 prodotti per i motivi più svariati: difetti di etichettatura di packaging, problemi di contaminazione, non conformità alla legge, ritiri richiesti dalle aziende…. Di certo c’è spazio per significativi miglioramenti da parte delle aziende, ma da questo punto di vista una quota di sprechi, per come è organizzata la distribuzione, è inevitabile. Diverso è lo spreco dovuto alla scadenza delle merci, limitato in realtà a poche tipologie di prodotti freschi. Ma oltre al sistema industriale, anche quello dei consumi dei privati cittadini condivide una parte di responsabilità.

Professor Segrè, che cosa si può dire sugli sprechi domestici ?

«Per quanto riguarda le case degli italiani, al momento gli unici dati disponibili sono quelli di un’indagine compiuta da Adoc dalla quale era emerso che si spreca in media il 16 per cento di frutta e verdura, il 35% di latte, uova, carne, formaggi per un valore di 454 euro all’anno per ogni abitante».

Questo è un punto delicato perché, come ha segnalato a suo tempo Ilfattoalimentare.it, l’indagine in questione è basata su un questionario piuttosto generico con risposte date da un campione limitato di persone, e ha fatto emergere un quadro che sembra francamente poco aderente alla realtà: è difficile immaginare che ciascuno di noi butti via un terzo di ciò che compra. Abbiamo quindi chiesto a Luca Falasconi che cosa ne pensa.

Dottor Falasconi, qual è secondo lei la vera dimensione dello spreco domestico?

«Anche noi abbiamo più di una perplessità sull’indagine Adoc. L’abbiamo ripresa nel Libro nero per dare un quadro completo della catena agroalimentare, dal produttore al consumatore. Tuttavia va anche detto, per completezza, che i dati riportati da Adoc sono in linea con quelli raccolti in Regno Unito e Stati Uniti utilizzando campioni e metodologie ben più scientifiche. Ciò non vuol dire che automaticamente i dati Adoc siano attendibili, ma solo che mettono in evidenza una tendenza che si sta affermando anche in Italia, cioè la “mala-educazione” alimentare delle famiglie. È proprio questo aspetto che vuole sottolineare il Libro nero, cioè mettere alla luce un fenomeno spiacevole e nascosto e cercare di fare qualcosa per cambiare la situazione».

Dunque siamo un popolo di spreconi. Ma che conseguenze ha questo atteggiamento nei confronti del cibo?

«Molte, e non sempre immediatamente intuibili. Oltre ai risvolti etici di un’attitudine difficile da giustificare, ce ne sono altri: produrre cibo, infatti, significa usare acqua, aria, territorio, lavoro e se il prodotto finale non viene utilizzato da nessuno il consumo alla fonte è inutile, e soprattutto dannoso, perché comporta appunto dispendio di elementi preziosi, emissione di Co2 e perdita di denaro».

Come mai, nonostante la crisi, il fenomeno è di così ampie proporzioni?

«All’origine c’è una questione culturale, alimentata anche da decisioni politiche. Tutti noi siamo continuamente invitati a consumare, ad acquistare anche ciò che non è necessario, a buttare via ciò che non risponde a certi canoni assurdi di omogeneità e perfezione, perché tanto di cibo ce n’è ed è anche abbastanza a buon mercato. Inoltre la diffusione di questo approccio al cibo è favorita anche da specifici atti legislativi: l’Europa, per esempio, finanzia produzioni agricole in eccesso, slegate dalla richiesta del mercato, e poi rifinanzia gli stessi produttori per non raccogliere o non vendere quanto maturato: follia pura, per di più pagata da noi».

Come se ne esce?

«Per invertire la rotta servono non possono bastare iniziative come Last Minute Market, perché sono locali e improntate a una logica solidaristica non certo in grado di incidere sulle cause della situazione. Bisogna lavorare sulla mentalità delle persone, come stiamo cercando di fare con il progetto Anno contro lo spreco in moltissime città europee, e adottare provvedimenti legislativi semplici ed efficaci, senza attendere rivoluzioni epocali o situazioni di emergenza».

Per esempio?

«In Svizzera per legge si devono indicare due scadenze sulle etichette dei prodotti alimentari: quella relativa alla vendita del prodotto e quella relativa al consumo. In questo modo l’acquirente evita di lasciare sul banco merce che ha ancora diversi giorni “di freschezza” davanti a sé solo perché la scadenza di vendita è troppo ravvicinata. Questo provvedimento si potrebbe adottare senza grossi sconvolgimenti in tutta Europa. Allo stesso modo, si dovrebbero obbligare i grandi distributori a vendere a metà prezzo le merci che rischiano il ritiro perché imperfette o vicine anch’esse alla scadenza. Oggi lo fa solo qualche catena a livello sperimentale. In genere i supermercati trovano più conveniente buttare tutto perché pensano che vendere merce non perfetta potrebbe ledere la loro immagine. Io credo che i cittadini sarebbero ben felici di avere questa opportunità e, indirettamente, si abituerebbero a comprare meno e meglio».

Cambiare dunque si può, anche senza evocare modelli di sviluppo troppo lontani dal nostro. E, soprattutto, si deve.

Agnese Codignola

foto: Photos.com

Andrea Segrè e Luca Falasconi, Libro Nero dello spreco in Italia: il cibo, Edizioni Ambiente, 124 pagine, 12 €