Nel Regno Unito, il nome “scampi” indica qualcosa di diverso rispetto a ciò che lo stesso indica per esempio in Italia. Se infatti nella maggior parte dei Paesi, Italia compresa, il termine è riferito a code decorticate di qualsiasi tipo di gambero, nel Regno Unito indica solo la carne di scampo, un piccolo crostaceo che vive nelle acque fredde della Scozia, dell’Irlanda e della Norvegia. Per pescare questi scampi si utilizzano ancora le reti a strascico, con danni molto gravi ai fondali, e con spreco di moltissimi piccoli pesci e molluschi che, una volta tirati fuori dell’acqua, in genere sono ributtati in mare, e non possono così ricostituire le popolazioni ittiche.
Da diversi anni si cerca di regolamentare questo tipo di pesca, ma i risultati, finora, sono stati più che insoddisfacenti, anche perché le iniziative per rendere questa pesca più sostenibile sono di fatto in mano ai grandi produttori. E la mancanza di regole ha ripercussioni anche sul destinatario finale, cioè sul consumatore, perché le aziende, per il solo fatto di aderire formalmente a programmi che loro stesse hanno creato, e non dovendo rispettare criteri legali, quasi sempre scrivono sulle confezioni che la pesca è stata responsabile, anche se non lo è quasi mai. Fanno, cioè, operazioni di greenwashing.
A denunciare la situazione ciò è la ONG Open Seas, che da anni chiede che si pongano limiti alla pesca a strascico. E le accuse che muove sono pesanti.
Il rapporto di Open Seas
Come riferisce anche la BBC, la ONG ha inviato una richiesta formale alla Competition and Markets Authority (CMA), ente governativo, affinché questa investighi sui prodotti denominati “scampi” che recano la dicitura “da fonte responsabile”, nonostante il British Retail Consortium abbia spesso affermato che i suoi associati, cioè i rivenditori, lavorano a stretto contatto con i produttori per assicurarsi sempre che la fonte sia sostenibile. Secondo Open Seas, questi claim non sarebbero veritieri, e non risponderebbero alle linee guida della stessa autorità, che sono chiare, in merito alle diciture.
Nel Regno Unito esiste un sistema di monitoraggio dei pescherecci, ma non ne esiste uno del pescato. Ciò significa che chi pesca a strascico tira su tutto ciò che vive sui fondali, con gravi ripercussioni sull’ecosistema marino. Questa pesca, ricorda Open Seas, è tutt’altro che responsabile, e i prodotti che ne derivano (scampi “puri”, ma anche uniti a gamberi, capesante e altro, in alcuni prodotti surgelati) non dovrebbero quindi essere etichettati come derivanti da fonti responsabili. Del resto, il fatto che siano definiti in questo modo, proviene soltanto da una sorta di autocertificazione delle aziende, e non dall’adesione a linee guida internazionali e indipendenti e le diciture sono quindi non affidabili.
Le risposte dei produttori
A questa critica, una delle aziende principali nel commercio di scampi, la Whitby Seafood, che si definisce “la casa degli scampi”, ha ricordato che la dicitura “responsibly sourced” è in linea con quanto indicato dalla Sustainable Seafood Coalition, e che la sua come altre società aderiscono a un progetto chiamato Fisheries Improvement Project (FIP).
Peccato che la coalizione, ha subito replicato Open Seas, sia stata fondata da aziende quali Marks & Spencer (M&S), Waitrose, Tesco, Lidl, Sainsbury’s, Co-op e Young’s e che il progetto sia un tale fallimento da essere stato di fatto chiuso, anche per i ritardi con i quali gli aderenti riportavano eventuali iniziative prese.
Tra le altre aziende, Morrison ha risposto che il 99% del suo pesce è allevato e certificato da enti terzi come sostenibile, Sainsbury’s ha ricordato di aver ricevuto diversi premi dal Marine Stewardships Council, M&S di essere nel board del Trustees for Fisheries Innovation, Tesco di lavorare con il WWF per migliorare le pratiche di pesca e la Co-op di farlo con tre diverse organizzazioni che si occupano di sostenibilità. Tutti sembrano quindi essere attivamente coinvolti nel miglioramento delle condizioni di pesca degli scampi. Tuttavia, secondo la ONG, si tratta di impegni che sono poco più che formali, e che servono più che altro per operazioni di greenwashing.
Greenwashing tattico
In realtà, la vicenda degli scampi inglesi ne ricalca molte altre simili emerse negli ultimi anni in diversi paesi. Si individua una pratica non sostenibile, che arreca gravi danni all’ambiente e della quale i consumatori, il più delle volte, non sono informati adeguatamente. Le aziende, soprattutto per prevenire eventuali critiche e perdere clienti, si impegnano a fare di più, e meglio, dando vita a consorzi, iniziative, manifesti e quant’altro. Ma gli impegni restano essenzialmente buone intenzioni scritte sulla carta, senza che a esse conseguano interventi efficaci e quindi senza che si riesca a cambiare davvero la situazione. Fino a quando la situazione si aggrava, e (finalmente) i legislatori stabiliscono norme chiare, stringenti, uguali per tutti e basate su ciò che dice la scienza.
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Giornalista scientifica
Dovreste parlare anche del Surimi e della carne macinata confezionata che si trova nei supermercati che contengono additivi nocivi Pink Slaim
Ramen Instantaneo, il pop corn da micronde, cereali da colazione, gamberi da allevamento, alcuni tipoi di shoushi. Tutti questi alimenti costituiscono rischio per la salute degli ignari consumatori. C’è ne sarebbero altri . Fonte canale You Tube Mr Curious
Gentilissima, qui trova un approfondimento per il surimi: https://ilfattoalimentare.it/surimi-prezzo-scarti.html
qui invece avevamo parlato del pink slime (che attenzione NON è la carne macinata che trova al supermercato ma un altro prodotto) https://ilfattoalimentare.it/pink-slime-carne-csm.html
Per quanto riguarda gli altri alimenti, come tutti non vanno demonizzati, ma in quanto cibi ultra processati vanno consumati saltuariamente, stando sempre attenti all’elenco degli ingredienti e cercando di evitare i prodotti che hanno troppi additivi, sale, zucchero o grassi.