L’ipotesi che il virus Sars-CoV-2 si potesse trasmettere attraverso il contatto con la carne era stata avanzata fin dai primi mesi della pandemia dai ricercatori cinesi, compresa Shi Zhengli, l’esperta di pipistrelli ribattezzata ‘bat woman’. Ma le ipotesi parevano infondate e supportate solo da spiegazioni alquanto farraginose, che prevedevano il trasferimento dei coronavirus da una persona infetta alla carne in lavorazione, la resistenza per giorni o settimane durante gli spostamenti intercontinentali, e poi il contagio di altre persone, in condizioni estremamente poco probabili. In più – si è sempre pensato – i virus come questi hanno bisogno di cellule vive per sopravvivere e replicarsi: se si trovano in un ambiente in cui le cellule sono morte come la carne per il consumo alimentare, è impossibile che tornino a moltiplicarsi e a infettare.
Ora però uno studio statunitense, condotto da ricercatori di tre diverse università, rimette tutto in discussione, suggerendo che i coronavirus potenzialmente pericolosi possano restare vitali anche nelle carni refrigerate o congelate, per poi tornare a moltiplicarsi e a essere infettivi.
Come riferito su Applied and Environmental Microbiology, per lo studio i ricercatori hanno scelto il batteriofago phi6, cioè un virus molto semplice che di norma infetta i batteri e viene usato spesso come controllo in questo tipo di esperimenti, e due coronavirus animali, cioè quello dell’epatite murina (MHV) e quello della gastroenterite trasmissibile (TGEV). Questi virus sono stati sottoposti a vari trattamenti fisici, per poi inocularli in carni di manzo, pollo, maiale e salmone, che sono poi state mantenute refrigerate a 4°C o congelate a -20°C per 30 giorni.
Alla fine del mese di conservazione, gli autori hanno provato a metterli nuovamente in condizioni normali e favorevoli alla replicazione, e hanno ottenuto risultati che sembrano molto chiari. Con efficienza diversa a seconda delle condizioni di conservazione e del tipo di carne, tutti e tre i modelli riescono a riprendere la replicazione, lasciando supporre che sia possibile una trasmissione anche di Sars-CoV-2 attraverso la carne. Tra l’altro, dati ulteriori, non pubblicati, indicano che risultati analoghi si vedono anche a 60 giorni.
Naturalmente – sottolineano gli autori – sarà ora necessario effettuare test direttamente con Sars-CoV-2 (non inserito in questo studio, che voleva essere solo una dimostrazione di principio), e delineare meglio tutte le condizioni ambientali che possono permettere al virus non solo di restare vivo, ma di mantenere la capacità di infettare.
Tuttavia, se confermata, questa resistenza dei coronavirus in situazioni teoricamente proibitive rispetto alla loro sopravvivenza, potrebbe confermare alcuni studi pubblicati negli ultimi mesi, tra i quali due da ricercatori che hanno analizzato focolai rispettivamente in Vietnam e Nuova Zelanda, o uno su test effettuati sulla lattuga romana conservata in frigorifero, che già suggerivano questa possibilità. Inoltre, potrebbe spiegare il numero di focolai straordinariamente alto verificatosi nei macelli e negli impianti di lavorazione di molti paesi, interpretato finora come la sfortunata conseguenza di una serie di condizioni necessarie per il trattamento della carne tra le quali le basse temperature, la vicinanza dei lavoratori gli uni agli altri, la necessità di urlare per comunicare (essendo l’ambiente molto rumoroso), l’utilizzo di utensili comuni come i coltelli, la promiscuità degli alloggi di molti di questi lavoratori soprattutto in paesi come gli Stati Uniti, dove sono per lo più immigrati non di rado illegali: tutte ideali per la trasmissione di droplet.
In attesa che il rischio associato a questa possibile via di infezione sia definitivamente chiarito – concludono i ricercatori – è indispensabile utilizzare scrupolosamente tutte le possibile misure precauzionali, relative soprattutto alla disinfezione delle superfici e delle mani e alla sterilizzazione dell’aria negli impianti di lavorazione, nonché al distanziamento e ai dispositivi di protezione come le mascherine del personale.
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Giornalista scientifica
Non c’è che dire, proprio una sfortunata conseguenza in un bel quadretto tra urla, motoseghe, sangue e lavoro nero.
“Inoltre, potrebbe spiegare il numero di focolai straordinariamente alto verificatosi nei macelli e negli impianti di lavorazione di molti paesi, interpretato finora come la sfortunata conseguenza di una serie di condizioni necessarie per il trattamento della carne tra le quali le basse temperature, la vicinanza dei lavoratori gli uni agli altri, la necessità di urlare per comunicare (essendo l’ambiente molto rumoroso), l’utilizzo di utensili comuni come i coltelli, la promiscuità degli alloggi di molti di questi lavoratori soprattutto in paesi come gli Stati Uniti, dove sono per lo più immigrati non di rado illegali: tutte ideali per la trasmissione di droplet.
Condivido completamente, rattrista ma è così.
E la conclusione dell’interessantissimo contributo “In attesa che il rischio associato a questa possibile via di infezione sia definitivamente chiarito – concludono i ricercatori – è indispensabile utilizzare scrupolosamente tutte le possibile misure precauzionali, relative soprattutto alla disinfezione delle superfici e delle mani e alla sterilizzazione dell’aria negli impianti di lavorazione, nonché al distanziamento e ai dispositivi di protezione come le mascherine del personale.” fa pensare molto. Anch rispetto all’estrema contagiosità del coronavirus.
Mi chiedo pure quanto abbia contribuito alla sua diffusione il ritardo inspiegabile con il quale si è giunti a questa certezza scientifica (“resistenza dei coronavirus in situazioni teoricamente proibitive rispetto alla loro sopravvivenza”).
E’ una informazione utile, che probabilmente vale anche per altri tipi di alimenti (ad esempio ci sono dati sui latticini o è stato dimostrato solo per le carni o pesce ( salmone) …??). Sarebbe opportuno dire a quali temperature e tipi di cottura il virus si inattiva definitivamente per tranquillizzare ed informare i consumatori, dato che sembra che con le alte temperature della cottura si elimini.
Si sa niente del virus dopo la cottura, evitando accuratamente di annusare prima la carne cruda?
Le alte temperature sono in grado di inattivare il virus Sars-CoV-2
meno carpaccio, tartare, bistecche al sangue; e più grigliate!