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Attualmente, e ormai da decenni, negli Stati Uniti meno del 29% del PET, il polietilene tereftalato utilizzato per le bottiglie e per numerosi altri scopi, viene riciclato. Un tasso decisamente basso, a fronte di grandi consumi e rispetto a percentuali che, in alcuni Paesi europei, si stanno avvicinando al 90%. Il motivo, secondo i ricercatori di scienza dei materiali e ingegneria del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Cambridge, è sostanzialmente uno: la raccolta non è organizzata a livello federale, e ogni comunità procede a modo suo. Per questo sarebbe necessario introdurre leggi e regolamenti nazionali che, se applicati interamente, potrebbero portare il riciclo all’82% e fornire circa 2,7 milioni di tonnellate di PET ogni anno. Il riciclo delle bottiglie in nuove bottiglie, in particolare, potrebbe arrivare al 65%, con un costo di 360 dollari a tonnellata di PET riciclato.

Nella formulazione delle norme, però, bisognerebbe tenere conto di una serie di fattori non tutti scontati, perché se le regole non fossero scritte considerando tutti gli aspetti, l’iniziativa potrebbe fallire.

La circolarità possibile del PET

Come illustrato sul Journal of Industrial Ecology, tutto ha origine da un successo degli ultimi anni: oggi è possibile realizzare bottiglie e altri prodotti per uso alimentare utilizzando il 100% di plastica riciclata, post consumo. E si tratta di plastica che, per qualità, non ha nulla da invidiare a quella vergine. Ciò implica, però, che le aziende che investono in questo materiale abbiano una fornitura costante e regolare, per poter a loro volta soddisfare le esigenze dei loro clienti (per esempio, una centrale del latte che ogni giorno immette nel mercato bottiglie di latte fresco). E proprio nella fornitura, paradossalmente, si trova la criticità maggiore.

La provenienza della materia prima, cioè del PET da riciclare, è infatti essenzialmente di due tipi, e cioè la raccolta attraverso i normali canali della nettezza urbana, e quella nei compattatori sparsi nelle città e destinati esclusivamente alle bottiglie, gestiti in genere da consorzi o comunque da entità diverse rispetto a quelle, comunali e statali, che si occupano della raccolta rifiuti. Entrambi, per non costituire un costo e anzi, garantire profitti necessari a essere mantenuti attivi, devono a loro volta ricevere un flusso relativamente costante di bottiglie. Ma i due sistemi non sono affatto equivalenti.

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Oggi è possibile realizzare bottiglie e altri prodotti per uso alimentare utilizzando il 100% di plastica riciclata

Purezza e resa

Il PET che arriva dai rifiuti normali in genere ha una resa inferiore, perché le plastiche differenziate in casa sono molte e diverse, e ciò comporta una bassa efficienza, quando si tratta di isolare e poi avviare a un nuovo ciclo uno polimero specifico come il PET, e un prodotto finale di valore commerciale modesto.

Per quanto riguarda la raccolta attraverso i compattatori posti per esempio nei supermercati, tutti i dati dimostrano che il metodo è efficiente, quando il deposito è incentivato in qualche modo (per esempio con qualche centesimo a bottiglia, o con un meccanismo premiale a punti), e soprattutto quando il numero dei punti di raccolta nell’area urbana è sufficiente, rispetto agli abitanti. E il PET che giunge da quella fonte è un prodotto a elevato valore commerciale perché puro, e richiede meno lavorazioni perché omogeneo e relativamente pulito. Tuttavia, i dati dimostrano anche che, per come è oggi, il circuito non riesce a soddisfare la domanda delle aziende di plastica riciclata, proprio a causa della disomogeneità dei metodi e della copertura del territorio.

Un meccanismo con compensazioni

I due tipi di raccolta, scrivono ancora i ricercatori del MIT, non devono tuttavia essere in competizione, ma lavorare in modo sinergico. Per evitare che il circuito dei compattatori sottragga materiali pregiati a quello della nettezza urbana, è necessario pensare a meccanismi di compensazione; per esempio, una parte dei profitti delle aziende del PET riciclato potrebbe andare a sostenere i bilanci di quelle – quasi sempre pubbliche – che riciclano le altre plastiche.

Allo stesso tempo, bisognerebbe agire sull’efficacia della raccolta: il 73% degli americani ha a disposizione la raccolta differenziata quasi sempre porta a porta, ma solo dieci stati hanno un sistema di depositi. Inoltre, sarebbe opportuno migliorare la qualità di tutte le plastiche in entrata nel circuito, imponendo ai produttori di alimenti e non solo standard omogenei, che rendano il riutilizzo più semplice e remunerativo. Infine, per rendere la filiera ancora più sostenibile sarebbe necessario incentivare gli impianti che utilizzano energia da fonti rinnovabili.

Pertanto, bisognerebbe avere leggi nazionali di riferimento, da adattare però alle singole realtà, fino a rendere tutta la rete, con le sue due componenti, omogenea e sostenibile dal punto di vista economico.

Per migliorare il riciclo delle plastiche, l’aumento della percentuale di plastica avviata alla filiera è solo uno dei passaggi, e non necessariamente il più decisivo. Ciò che conta, in realtà, è avere un programma strategico generale, che pensi a tutti i diversi aspetti e li tenga insieme in modo il più possibile armonico ed efficiente.

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