I due servizi sul vino di Emanuele Bellano andati in onda su Rai 3 nelle puntate di Report del 17 dicembre e del 18 febbraio scorsi hanno suscitato reazioni e dibattiti accesi soprattutto tra gli addetti ai lavori all’interno del mondo del vino. Addirittura il ministro Francesco Lollobrigida, in un intervento successivo alla prima puntata ha definito la trasmissione “un nemico in casa”, riferendosi alla sua presenza nel palinsesto della TV di Stato e alla necessità di esaltare le eccellenze e non di affossare i prodotti Made in Italy, dimenticando che non solo il ruolo dell’informazione non è quello di farsi degli amici, ma anche che la promozione dei prodotti non può né deve essere una preoccupazione del giornalismo.

Il problema però c’è, ed è che le due trasmissioni hanno perso un’occasione preziosa, quella di dare un servizio al pubblico che, al netto delle levate di scudi degli addetti ai lavori (che potrebbero lecitamente non interessare), ne è uscito probabilmente soltanto confuso.

Gli errori di Report… e dei produttori

Del tono e della chiave scelta dagli autori dei servizi, con lo scopo di lanciare accuse e denunce in modo indistinto su pratiche lecite e sofisticazioni, ne hanno parlato già in molti. Forse sarebbe stato meglio prima spiegare (e conoscere) le regole, cosa è lecito e cosa non lo è, e poi passare a denunciare chi quelle regole, esistenti e molto chiare, non le rispetta. Perché denunciare un comportamento lecito non è denunciare ma giudicare.

L’errore non deve essere nemmeno, però, quello di guardare il dito e sottolineare errori banali quali la pronuncia del nome di una varietà, quando dietro all’allarmismo e al disagio che genera una trasmissione si cela anche purtroppo la grande responsabilità del settore vitivinicolo che ha a lungo sottovalutato l’importanza di essere trasparente e anzi proattivo nello spiegare al suo pubblico processi, tecniche, scoperte e innovazione del mondo dell’enologia moderna. Se a parlare di additivi, coadiuvanti, bentonite, gelatina, mosto concentrato rettificato e lieviti selezionati fossero stati proprio i produttori di vino nella loro comunicazione, se non ci si fosse nascosti dietro a poesia, cascine e cappelli di paglia, forse la realtà delle cisterne di acciaio e dei cilindri graduati non avrebbe scandalizzato nessuno. Il problema cioè casomai non è dare informazioni, è non darle o darle in modo sbagliato. E allora parliamone.

Report piccoli chimici 17.12.2023
Due servizi sul vino di Report del 17 dicembre e del 18 febbraio scorsi hanno suscitato reazioni e dibattiti accesi

Le famigerate polverine, una storia che viene dal passato

C’è un malinteso di fondo del quale si è nutrita per decenni la narrazione e l’immagine del mondo del vino ed è che in passato questa bevanda antichissima fosse non solo di qualità superiore e più genuina, ma anche che per produrla non si ricorresse ad alcuna aggiunta esogena. 

La realtà è diversa: il vino e le bevande vinose ottenute facendo uso delle cosiddette ‘polverine’, in grado di modificarne la composizione, il colore e l’aroma, ma anche utilizzando acqua e sottoprodotti come fecce e vinacce per aumentare i volumi ottenibili da una stessa quantità di uva, rappresenta uno scenario che appartiene al passato e non al presente. Senza risalire ai tempi dei Romani, i vini dei nostri nonni, bisnonni e trisavoli erano, salvo poche eccezioni, molto diversi da quelli di oggi: instabili, inadatti ai trasporti e alla conservazione, realizzati con l’obiettivo di produrre molto e con una scarsa attenzione alla qualità. Per quanto in molti per secoli vi abbiano ambito, il concetto di vino e viticoltura di qualità  sono traguardi raggiunti solo negli ultimi decenni del Novecento, mentre quello di sostenibilità è ancora più recente.

Il ‘buon’ vino di una volta

Basta leggere i manuali di enologia o le pubblicazioni tecniche del 1800 per capire che erano molti i prodotti venduti e pubblicizzati che oggi attirerebbero l’attenzione dei NAS o della Repressione frodi. La “polvere enantica composta con acini d’uva ed erbe fragranti per preparare con tutta facilità un buon vino rosso di famiglia, economico e garantito igienico” o il “Pianto della vite, succo tanto ricercato per fabbricare con vini ordinari ed anche senza vino, vino Champagne spumante delle più ricercate qualità”, sono alcune delle specialità che spiccano nei primi anni del 1900 nel catalogo del Laboratorio Chimico Enologico della Soave e Co. di Torino, mentre il Nuovo Manuale Completo del Perfezionamento dei Liquidi contenente l’arte d’imitare i vini d’ogni sorta, allungarli, colorirli, disacidarli… di M.V.F. Lebeuf edito nel 1870 descrive nel dettaglio ricette e protocolli che prevedono l’uso di aromi, coloranti, alcol e zuccheri.

Anche alcuni prodotti e pratiche enologiche arrivate fino a noi, tra le quali l’uso delle proteine come la colla di pesce, l’albumina e la gelatina animale, la gomma arabica, l’anidride solforosa nelle sue diverse forme, risalgono a tempi molto antichi e sono riportate nei manuali come tecniche per migliorare la stabilità e la limpidezza dei vini. 

Quello che sicuramente è interessante sottolineare è che negli anni e ancora di più negli ultimi decenni in cantina il ricorso alla chimica si è andato riducendo, perché il grande lavoro di miglioramento delle condizioni di maturazione e gestione della qualità delle uve in vigneto lo ha reso semplicemente sempre meno necessario.

Vino rosso versato in un calice da una bottiglia
Anche alcuni prodotti e pratiche enologiche arrivate fino a noi risalgono a tempi molto antichi

I lieviti, selezionati o indigeni, fanno sempre le stesse cose

La storia dei lieviti è solo di poco più recente e si lega alla storia stessa della scienza: scoperti e descritti da Louis Pasteur nel 1877, l’isolamento, la selezione e la moltiplicazione dei primi inoculi è successiva solo di pochi decenni e le collezioni di lieviti selezionati prodotti e distribuiti alle cantine per la fermentazione dei mosti nascono già tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900. 

In ogni caso, in quelle prime collezioni così come oggi, i lieviti selezionati non sono né artificiali né ottenuti in laboratorio. Il processo di selezione prevede di isolare all’interno della popolazione presente naturalmente in un mosto fermentato spontaneamente o su un grappolo d’uva i diversi ceppi di Saccharomyces cerevisiae presenti, studiarne i caratteri e scegliere all’interno di questa varietà quelli con le caratteristiche più adatte a condurre una fermentazione corretta e qualitativamente apprezzabile.

Inoculare in un mosto un lievito selezionato permette di ridurre la probabilità che si sviluppino altri lieviti o batteri presenti e in grado di utilizzare gli zuccheri per produrre composti o caratteri indesiderati, ma anche avere maggiore garanzia di consumare tutti gli zuccheri, in quanto, non dimentichiamo, che completare la fermentazione alcolica e ottenere un vino privo di difetti rappresenta un obiettivo produttivo che appartiene all’uomo e non alle comunità microbiche del mosto e dell’uva.

L’impatto dei lieviti sul vino

L’impatto dei lieviti sulla qualità dei vini c’è perché nel loro metabolismo, oltre all’alcol e l’anidride carbonica, questi microrganismi producono anche enzimi che trasformano i precursori già presenti nell’uva in altri composti aromatici detti aromi varietali, così come liberano altri composti volatili detti aromi fermentativi e macromolecole in grado di interagire con il gusto dei vini.

Se si parla di Saccharomyces cerevisiae, tutti i lieviti, quelli presenti in una fermentazione spontanea o quelli selezionati e inoculati nei mosti, hanno le stesse attività metaboliche, per quanto espresse con maggiore o minore intensità, cioè producono composti volatili, a volte apprezzabili e altre volte sgradevoli, trasformano i precursori aromatici e liberano macromolecole.

L’unica differenza è che utilizzando un lievito selezionato si sa in partenza come si comporterà. Attribuire la standardizzazione dei caratteri dei vini o la globalizzazione del gusto a un ceppo di lievito però significa davvero sopravvalutarne l’operato: altri sono i fattori che pesano, come la diffusione delle varietà internazionali ad esempio. Ma la riconoscibilità di un vino così come lo stile di un produttore sono legati alla qualità dell’uva e al lavoro fatto in vigneto, al clima e al suolo, molto più che a quanto sia possibile fare con la scelta di un ceppo di lievito o di un altro.

vino sommelier ristorante alcol vini
L’impatto dei lieviti sulla qualità dei vini c’è perché questi microrganismi producono anche enzimi che trasformano i precursori già presenti nell’uva in altri composti aromatici

Un Regolamento Europeo per pratiche e prodotti autorizzati: o si è dentro o si è fuori

Oggi le pratiche enologiche, così come gli additivi e i coadiuvanti autorizzati in cantina, sono riportate nel Regolamento europeo 934/2019 nel quale si trovano alcune liste positive che rendono tutto molto semplice: si può fare o utilizzare solo quello che è riportato, nelle modalità e con le limitazioni che sono riportate. Se qualcosa non è riportato non si può utilizzare.

Per fare degli esempi, tra i prodotti citati nelle due puntate di Report la bentonite, la gelatina, i lieviti selezionati, i pezzi di legno di quercia (e attenzione, solo quelli di quercia e per l’Italia solo per i vini privi di denominazione di origine), sono presenti nelle liste del Regolamento 934 e sono autorizzati. I coloranti, gli aromi non sono riportati, non si possono utilizzare e il loro uso eventuale rappresenta una frode, che gli organi di controllo possono facilmente rilevare (e rilevano) attraverso l’applicazione di metodi di laboratorio sempre più precisi e raffinati. 

Le pratiche enologiche vengono approvate dopo un iter di sperimentazione e attenta valutazione della sua efficacia e dei rischi per il consumatore, come avviene per qualsiasi tecnica, materiale, additivo o coadiuvate destinato all’alimentazione umana. Oggi rispetto al passato vige un principio di controllo e prevenzione: le pratiche autorizzate sono quelle che servono per prevenire attraverso un miglior controllo dei processi l’insorgenza di difetti o alterazioni e non per correggerli o coprirli. 

Perchè si utilizzano additivi e coadiuvanti? Per tenere i processi di produzione sotto controllo, che nel caso della fermentazione alcolica ad esempio significa evitare alterazioni e sviluppo di microrganismi indesiderati, ma anche per avere vini limpidi e stabili che non formino precipitati o torbidità in bottiglia, o che non si alterino con formazione di aromi sgradevoli.

Tutto questo il consumatore di vino lo sa? 

C’è una buona notizia che Report ha perso l’occasione di dare: a partire dall’8 dicembre scorso (e con un’ennesima deroga di tre mesi ormai in scadenza), è entrato in vigore il nuovo regolamento che introduce come per gli altri alimenti confezionati l’obbligo previsto dal Reg. 1169/2011 di riportare sull’etichetta dei vini l’elenco degli ingredienti, il valore energetico e la tabella nutrizionale. Sull’etichetta fisica, o in uno spazio virtuale raggiungibile con facilità attraverso un QR code, dei vini prodotti a partire dall’8 dicembre scorso troveremo quindi tutte queste informazioni, oltre a quelle già presenti compresa la lista degli allergeni.

Donna preleva bottiglia di vino rosso dallo scaffale del supermercato
I vini prodotti a partire dall’8 dicembre devono riportare in etichetta ingredienti e valori nutrizionali, anche tramite un QR code

Sono ingredienti “qualunque sostanza o prodotto, compresi gli aromi, gli additivi e gli enzimi alimentari, e qualunque costituente di un ingrediente composto utilizzato nella fabbricazione o nella preparazione di un alimento e ancora presente nel prodotto finito, anche se sotto forma modificata”. Per questo tra le sostanze utilizzate in cantina delle quali abbiamo parlato nei paragrafi precedenti saranno riportati (per il vino come è già per tutti gli altri alimenti) oltre all’uva, anche il mosto concentrato e gli additivi che sono aggiunti e ancora presenti nel prodotto finito. Per fare degli esempi sono additivi gli acidificanti come l’acido tartarico, gli stabilizzanti come la gomma arabica o i conservanti come l’anidride solforosa. Si troverà anche la categoria funzionale dei diversi additivi e questo potrà spiegare al consumatore il motivo per cui essi sono utilizzati.

Non tutto quello che si usa nella produzione del vino è presente nella bottiglia

I coadiuvanti tecnologici, come i chiarificanti proteici o la bentonite e i lieviti, che sono utilizzati nel processo ma che successivamente sono rimossi o allontanati (con un travaso o una filtrazione ad esempio), non sono presenti nel prodotto finito e non devono essere riportati nell’elenco degli ingredienti.  

Ma facciamo attenzione: il fatto che vi siano delle pratiche o prodotti autorizzati non significa che li si debba usare, né che li si usino tutti. Non solo si può scegliere, ma è improbabile (e tecnicamente inutile in quanto molti prodotti hanno la stessa funzione) che li si usino tutti. Quindi, se gli additivi ammessi sono una ventina e vedremo liste con soltanto tre o quattro ingredienti, non sarà perché i produttori ci nascondono chissà che cosa ma perché semplicemente è così.

Senza 

Per concludere, rispondiamo a una domanda: si può fare vino senza ricorrere all’uso di additivi e coadiuvanti compresi i lieviti selezionati come dichiarano di fare i produttori dei cosiddetti vini naturali? La risposta è che sì, si può e dipende dal livello di rischio che un produttore è disposto ad assumersi o è in grado di gestire. 

I motivi di una scelta o di un’altra possono essere molti, sono tutti rispettabili, e sono legati a moltissimi fattori, alla dimensione e l’organizzazione aziendale, al fatto di gestire personalmente il lavoro di una cantina, o affidarlo a uno o a molti addetti, al numero di persone il cui reddito dipende proprio da queste scelte, al rapporto diretto o indiretto che un produttore ha con i propri consumatori e a quanto questi per caratteristiche o cultura sono disposti ad accettare eventuali differenze o imprecisioni.

Non solo non è corretto definire etica una scelta e non un’altra quando abbiamo visto che l’unico confine esistente è quello normativo, ma anche la sostenibilità delle diverse scelte può dipendere da molti fattori diversi. A volte ad esempio l’uso di un additivo può ridurre la necessità di refrigerare un vino per ridurre il rischio di formazione di precipitati in bottiglia o permettere di contenere i consumi di acqua. Ma può darsi anche il caso che qualcuno scelga più semplicemente di accettare la presenza di depositi nelle bottiglie dei suoi vini. 

Non fare ricorso a determinate tecniche non significa che i vini così ottenuti presentino dei difetti, tanto quanto applicarle non significa che i vini avranno gusto e carattere standardizzato. L’una o l’altra scelta non permettono nemmeno di affermare in ogni caso e con sicurezza che alcuni produttori siano sostenibili e virtuosi e altri poco attenti all’ambiente o dediti unicamente al profitto. 

© Riproduzione riservata Foto: Report, AdobeStock, Depositphotos

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riccardo
riccardo
1 Marzo 2024 14:12

In campagna si dice che “il vino si fa in cantina, l’olio sul campo”.
Ora anche l’olio si fa in cantina.
Sia l’olio che il vino, oggi, sono migliori di quelli di una volta, anche se estremamente più costosi a causa di costi di personale adeguato ad un prodotto che deve costantemente adeguarsi per qualità ai tempi per essere vendibile.

alessandrabiondi
alessandrabiondi
Reply to  riccardo
1 Marzo 2024 17:29

Il vino si fa soprattutto in vigneto, la cantina trasforma la qualità dell’uva ed è il lavoro in vigneto attento e professionale che ci sta portando ad avere vini di qualità sempre maggiore.

riccardo
riccardo
Reply to  alessandrabiondi
2 Marzo 2024 13:10

Per essere arrivati al livello di oggi sono serviti gli interventi di svariate generazioni di enologi, da Cotarella a Tachis, che hanno “inventato” Aziende che hanno marcato i decenni post anni 90. Hanno rivoluzionato, in bene, il vecchio modo di fare vino, riscoprendo e rinnovando cloni oramai in declino.
Penso a cosa racconta Maculan del suo Torcolato, lo sviluppo del Picolit o del Moscato di Scanzo, piccoli territori di produzione che si sono nel tempo ampliati (così come capitato alla Cipolla di Tropea) grazie al successo commerciale ottenuto. O al Prosecco, con la sua espansione oramai arrivata sino al Friuli.
Ed è vero, si lavora il vigneto e lo si fa molto meglio di una volta, grazie alla selezione dei cloni ed alla cura propria del terreno (anche nel rispetto del biologico), ma una volta raccolta l’uva il blend che si realizza è merito di palati esperti (i disciplinari storici sono stati rivoluzionati in base all’evoluzione del gusto) che favoriscono l’adeguamento alle tendenze. E ce lo hanno insegnato i francesi che rabboccano le bottiglie con il liquer d’espedition, integrato da una “spruzzata” di vino che garantisca negli anni un gusto del prodotto omologato.

Carlo
Carlo
Reply to  riccardo
2 Marzo 2024 19:10

Il vino si fa in vigna

Lais International
Lais International
2 Marzo 2024 08:31

Potremmo parlare all’infinito e non trovare un accordo comune ma chi è addetto hai lavori e dopo decenni di
Conoscenza sa bene che Report ha sollevato un vaso di Pandora molto oscuro e protetto ai consumatori! Ci sono aziende che fino a ieri producevano vini non buoni ma adesso con un enologo che ha buona conoscenza e professionalità…i vini hanno avuto un salto di… qualità

Roberto
Roberto
Reply to  Lais International
19 Marzo 2024 09:34

“Ci sono aziende che fino a ieri producevano vini non buoni ma adesso con un enologo che ha buona conoscenza e professionalità…i vini hanno avuto un salto di… qualità”

Non ho capito se con questa frase intenda che ciò sia un bene od un male…

E’ meglio il tanto decantato “vino del contadino” che però era acido, pieno di bisolfito dosato a occhio e che non si conservava oppure un vino fatto da un enologo?

Così, giusto per capire…

Roberto La Pira
Reply to  Roberto
19 Marzo 2024 10:09

Un professionista del settore è una buona soluzione

Carlo
Carlo
2 Marzo 2024 19:09

Appare chiaro che pratiche virtuose in vigna preservano il terreno e di conseguenza le uve.
Uve sane e zero chimica in cantina forniscono di conseguenza un prodotto decisamente più vero e caratteristico, identità di un territorio e non come il prosecco che con 3 disciplinari ed un territorio che va da Treviso a Trieste 200km di distanza è zero identità ma solo business

Stefano Zambonini
Stefano Zambonini
3 Marzo 2024 10:13

Bravissimi è l’unico articolo completo ,chiaro ,esaustivo che ho letto sull’argomento

Roberta Conedera
Roberta Conedera
7 Marzo 2024 07:58

Ottimo ed esaustivo articolo.

Vanda Umari
Vanda Umari
19 Marzo 2024 09:04

Con dispiacere vedo che il fatto alimentare continua ad attaccare la trasmissione report. Perché? Perché il fatto alimentare continua ad intermezzare gli articoli con pubblicità? Non dovrebbe essere ‘ neutrale’?

Roberto La Pira
Reply to  Vanda Umari
19 Marzo 2024 10:16

Non stiamo attaccando Report, scriviamo articoli su alcune puntate che trattano problemi alimentari e che a parer nostro presentano criticità. Lo abbiamo sempre fatto anche con altre trasmissioni come Indovina chi viene a cena, Di Martedì di Floris su la 7, Porta e a porta di Bruno Vespa su Rai 1…. Noi ci finanziamo con la pubblicità proprio che fa la Rai, la differenza è che non facciamo pagare il canone e non facciamo pubblicità a junk food, acqua minerali, integratori come le emittenti

stefano
stefano
19 Marzo 2024 14:35

Per intanto complimenti per l’articolo che finalmente riesce a dare al consumatore una visione maggiormente oggettiva e se mi si permette, anche meno “complottistica” del fare vino. Il resto è voler negare a noi stessi consumatori che tutta la disponibilità di cibo, bevande sempre uguali a se stesse nei decenni sia quasi legato alla fortuna e non al progresso tecnologico con i risvolti buoni e cattivi che ognuno di noi conosce. Per ultimo, da specialista del settore enologico , vorrei chiarire che di per se il vino non può essere un prodotto naturale in quanto se lasciamo fare a madre natura l’uva che abbiamo pigiato si trasformerà in aceto, ed è proprio solo grazie alla mano del’uomo se invece possiamo parlare all’infinito di questo prodotto.

giova
giova
19 Marzo 2024 14:54

Un articolo molto ben scritto. La dottoressa Biondi Bartolini ha espresso anche dei pareri sull’informazione, che condivido, come quando sottolinea la necessità di “condurre per mano il lettore” (corsivo mio) nell’approfondimeno di un discorso che è anche tecnico-scientifico, e normato.
Evitando di confondere o rendere difficile la comprensione, altrimenti si dis-informa. Questo è il ruolo dell’informazione.
E come procedere nell’informare? Semplice – scrive la giornalista – prima spieghi e illustri le regole, poi denunci, evitando di denunciare ciò che è meritevole di un giudizio e di giudicare ciò che invece, contravvenendo alle regole, va denunciato.
Tra i punti toccati vi sono gli aspetti storici dell’enologia, il ridimensionamento degli effetti dei lieviti sul risultato finale (e se ne sentiva il bisogno), la nuova etichetta (una vergogna l’ostruzionismo storico praticato dai produttori!). Molto interessante, attualissimo e sintetico le righe dedicate ai c.d. “vini naturali” (a quando un approfondimento ad hoc?).
Dopo questa soddisfazione vorrei esprimere però anche una perplessità.
Se i coadiuvanti tecnologici vengono rimossi o allontanati non significa che non sono stati usati, ma solo che il prodotto finale non li contiene, Chi lo beve però non lo sa, in quanto senza obbligo di dichiarazione, ad eccezione degli additivi presenti.

Lelio Francescoi MORRICONE
Lelio Francescoi MORRICONE
19 Marzo 2024 19:03

Commento molto ben scritto, chiaro e del tutto condivisibile.
Chi fa il vino per passione lo sa; fare frodi è un’altra cosa che ovvisamente deve essere punita.
Lelio Morricone; medico specialista in scienze dell’alimentazione, viticoltore.