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Che cosa succede quando la plastica classica finisce nel terreno? E quando lo fa quella compostabile o biodegradabile? La domanda ha implicazioni molto significative, perché il sequestro del carbonio da parte del terreno è una parte fondamentale del ciclo dei gas serra. E anche perché, da diversi anni, gli agricoltori si stanno impegnando a sostituire la plastica di teli, pacciamature e strumentazioni di vario tipo con materiali che, in teoria, si degradano e sono pubblicizzati come innocui. Infine, ovviamente, perché la plastica che si disperde nel terreno torna al cibo attraverso i vegetali che vi crescono e che sono poi consumati dagli esseri umani e dagli animali.

Plastica tradizionale o biodegradabile

Le risposte finte finora, però, sono carenti, perché gli studi realistici su che cosa accade con i diversi tipi di plastica sono stati pochi. Per capire meglio il destino delle due grandi famiglie di plastiche, i ricercatori del College of Agriculture della Nanjing Agricultural University cinese, in collaborazione con quelli della School of Environmental and Natural Sciences della Bangor University, in Gran Bretagna, hanno lavorato per due anni e hanno poi riportato su Carbon Research quanto osservato, ossia una serie di comportamenti che nessuno aveva previsto, dal significato ancora da interpretare, in parte positivo in parte negativo. Nello specifico, hanno controllato sia il polipropilene o PP, la plastica tradizionale più utilizzata in agricoltura, sia l’acido polilattico o PLA, il polimero biodegradabile per eccellenza.

Entrambi sono stati somministrati a una concentrazione realistica, pari allo 0,2% (peso su peso) in sezioni di terreno alte fino a venti centimetri. Quindi, nel tempo sono stati studiati sia le popolazioni di microrganismi che i dati relativi alla quantità di carbonio sequestrata nelle diverse condizioni. Per questo riguarda quest’ultima, i due tipi di plastica non hanno causato differenze significative. Tuttavia, ciò che accade al di sotto della superficie è molto diverso, e con entrambe le plastiche si determina un’alterazione profonda del terreno.

Una calamita per batteri

Il PLA si è risultato una sorta di magnete per alcuni tipi di batteri del suolo, chiamati k-strateghi, particolarmente abili nello scomporre la lignina (il principale componente del legno). Attirandoli a sé, il PLA li sottrae al terreno e questo significa che, in media, nel suolo si trova il 32% di lignina in meno e, quindi, che vi sono meno composti stabili e strutturali, tipici anche delle radici, e più efficienti nel trattenere il carbonio. Ma c’è dell’altro, di significato diverso.

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Anche la pacciamatura con PLA sembra avere delle critictà

Il PLA, fa aumentare la necromassa, cioè l’insieme dei detriti cellulari provenienti da batteri e funghi morti. L’incremento è dovuto al fatto che il polimero favorisce la formazione di un microbiota più variegato, con una maggiore diversità biologica (+5,3%) e con più reti complesse (+11%) e questo rafforza l’ecosistema a terra, rendendola più resiliente e provocando un turnover più spinto, che si vede dall’aumento dei detriti.

Infine, sorpresa ulteriore, l’acido polilattico sembra favorire nettamente i funghi rispetto ai batteri: un cambiamento che può essere benefico ma cui fa da contraltare uno sbilanciamento, perché il PLA è molto ricco in carbonio e povero in azoto. Le proporzioni dei due elementi fanno diminuire i batteri che metabolizzano l’azoto fino a quando, esaurite altre possibilità, questi si mangiano tra loro, facendo aumentare ulteriormente la necromassa. Il cannibalismo, però, ha come conseguenza l’impoverimento ulteriore del terreno, che diventa sempre meno ricco di azoto e quindi meno fertile.

Un danno diverso

Per quanto riguarda il PP, questo polimero non sembra interferire più di tanto con il microbiota del suolo. Piuttosto, rilascia sostanze tossiche con gli additivi che, a loro volta, portano a una diminuzione della necromassa. Secondo gli autori, il PP non nutre il terreno ma lo affama, perché agisce come una coperta impermabile, al di sotto della quale non cresce nulla.

Le conclusioni

In generale, il commento degli autori è incentrato sul fatto che si è dato ampio spazio e sostegno al PLA in agricoltura, proprio perché la plastica classica era utilizzata in modo estensivo in tutto il mondo, ma lo si è fatto senza che ne fossero mai stati analizzati gli effetti al suolo dei diversi tipi. Questo sarebbe un errore da non ripetere, perché gli squilibri evidenziati, e lo spostamento da un immagazzinamento del carbonio dalle piante ai batteri potrebbe avere conseguenze impreviste.

Ciò non significa che si deve tornare ai polimeri di prima, al contrario. Tuttavia, prima di sposare un certo materiale e farne “la soluzione”, bisognerebbe agire in base a ciò che dice la scienza. E quando questa non ha molto da dire perché non sono stati condotti studi adeguati, bisognerebbe sostenere sempre la ricerca sui nuovi materiali e quella finalizzata a conoscere il terreno come ecosistema e non solo come substrato da coltivare. Il suolo è il secondo deposito di carbonio della Terra e ne immagazzina più di tutte le foreste messe insieme: per questo bisognerebbe averne maggiore considerazione, in tutte le valutazioni.

Microplastiche colorate su un cucchiaino dorato su sfondo azzurro
È urgente diminuire la presenza di plastica non solo nel suolo, negli alimenti e nelle bevande, ma ovunque

Anche il microbiota intestinale è sconvolto

Che una delle vittime principali dell’arrivo della plastica sia il microbiota lo si vede anche nell’organismo umano, in cui sono i polimeri classici a squilibrare le popolazioni batteriche. Lo ha confermato uno studio presentato nei giorni scorsi al congresso di United European Gastroenterology (UEG) svoltosi a Berlino dai ricercatori del CBmed Research Center di Graz, in Austria, che hanno attentamente analizzato i cambiamenti del microbiota di cinque persone in risposta a diversi polimeri. I campioni sono stati prima messi in coltura, per consentire alle specie presenti di crescere senza turbamenti, e poi “trattati” con cinque tra i tipi più comuni di polimeri classici, e cioè polistirene, polipropilene, polipropilene e bassa densità, polimetilmetacrilato e polietilene tereftalato.

I ricercatori hanno ridotto tutti i materiali a dimensioni micro (con un diametro medio di cinque micron) e li hanno dati a concentrazioni simili a quelle che si possono ritrovare nell’organismo in seguito all’ingestione, e poi a dosi più elevate, per studiare l’effetto di accumulo.

Plastica e acidità

La conta totale delle cellule vitali è rimasta invariata, ma il contatto con le plastiche ha causato al microbiota un aumento significativo di acidità, fattore che indica un cambiamento dell’attività metabolica microbica. Indagini più approfondite hanno rivelato diversi squilibri, con incrementi di alcune specie e decrementi di altre, soprattutto nell’ambito dei bacilli, tra i più importanti per la salute dell’intestino e per la digestione. Tra l’altro – hanno sottolineato gli autori – alcune di queste modifiche sono molto simili a quelle già associate alla depressione e a certi tipi di tumori del colon retto: un ulteriore campanello d’allarme.

I dettagli di questi sbilanciamenti non sono ancora chiari; può essere, per esempio, che certe plastiche favoriscano lo sviluppo del biofilm (una sorta di pellicola che avvolge le colonie, rendendole particolarmente resistenti) di alcune specie a discapito delle altre, così come che trasportino altre molecole che esercitano un’azione specifica, agendo come shuttle.

In ogni caso, il messaggio è sempre lo stesso: è meglio cercare di ingerire il minor numero di micro e nanoplastiche possibile, ed è urgente diminuirne la presenza non solo nel suolo, negli alimenti e nelle bevande, ma ovunque.

© Riproduzione riservata. Foto: Depositphotos

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Aldo Reguzzoni
Aldo Reguzzoni
17 Ottobre 2025 18:47

Verrebbe da dire disinformazione allo stato puro. Mi limito ad osservare che il PP polipropilene non è assolutamente inclusivo dell’universo delle plastiche tradizionali ed ancor meno il PLA acido polilattoco delle plastiche COMPOSTABILI sulle quali gli studi scientifici non rispecchiano quanto riportato nell’articolo.

Roberto La Pira
Reply to  Aldo Reguzzoni
18 Ottobre 2025 11:06

Cioè?

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