Meno del 10% della plastica prodotta finora è stata riciclata. La filiera impiega centinaia di composti diversi (che, con i prodotti della degradazione, diventano migliaia), i cui effetti sul corpo umano sono in gran parte sconosciuti. E quando ci sono i dati, si tratta quasi sempre di informazioni poco rassicuranti. Incomincia così un lungo articolo pubblicato dal Guardian, dedicato ai rapporti tra plastica e alimenti, che fa il punto sulle attuali conoscenze e sottolinea quanto ci sia ancora da capire su questi materiali così ubiquitari.
Iniziando dalle questioni più note, si possono considerare i contenitori per alimenti e quindi, per esempio, gli ftalati. Anche se sono stati banditi da alcuni materiali come quelli per le stoviglie dei bambini, perché responsabili di effetti dannosi sul sistema endocrino e riproduttivo, in realtà sono talmente diffusi da essere presenti virtualmente nel corpo di tutti i cittadini americani, secondo i CDC di Atlanta.
Un’altra categoria sotto accusa è quella del bisfenolo A (Bpa) e dei suoi derivati che, come gli ftalati, sono interferenti endocrini e sono stati associati a disturbi nello sviluppo del feto, soprattutto a carico del sistema nervoso. Anche il Bpa è stato escluso da alcuni prodotti, e molti materiali sono ormai etichettati come Bpa free. Ma questo significa, nella maggior parte dei casi, che il Bpa è stato rimpiazzato dai suoi sostituti Bps e Bpf che, stando a quanto riportato in numerosi studi, provocano gli stessi danni. Su tutti, il Guardian ne cita alcuni come quelli dell’Università del Texas e della Washington State University. Le ricerche hanno mostrato come anche un quantitativo pari a una dose per trilione abbia già conseguenze misurabili. E poi uno, del 2019, della New York University, che ha associato il Bus e il Bpf all’obesità infantile.
A ulteriore conferma, è di questi giorni un’altra ricerca, pubblicata su PNAS e condotta su animali, dalla quale emerge che il Bus compromette la funzionalità della placenta e riesce sempre a raggiungere il feto. In più altera il passaggio dei neurotrasmettitori serotonina e dopamina, fondamentali per il corretto sviluppo del cervello dell’embrione.
Non esistono, naturalmente, solo i contenitori. I cibi moderni entrano in contatto con moltissime altre materie plastiche, per esempio attraverso gli incarti, interni ed esterni. Nel 2019 il Food packaging forum, associazione non profit con base in Svizzera, ha censito ben 900 composti probabilmente utilizzati, e oltre 4.300 potenzialmente impiegati negli imballaggi alimentari. Per il 60% di questi ultimi – ricorda il quotidiano – non è disponibile alcun dato sulla sicurezza.
Nel 1988, in realtà, sono state introdotte delle sigle per identificare sette tra le plastiche più diffuse, e di sicuro quelle più comuni tra i contenitori alimentari sono il polipropilene e il polietilene, ma si tratta, evidentemente, della punta dell’iceberg.
I dubbi principali riguardano la stabilità dei materiali, in teoria garantita, ma nella realtà soggetta ad attacchi continui da parte di agenti fisici e chimici, per esempio del calore (di lavastoviglie e forni a microonde) o da alcuni alimenti grassi (che attraggono molecole dalla plastica). Per non parlare delle eventuali impurità e dei radicali liberi (specie chimiche altamente reattive) che si formano durante la produzione dei polimeri, e che possono rendere il prodotto finale qualcosa di diverso da ciò che si pensa di ottenere. Nel 2019 ricercatori tedeschi e norvegesi hanno testato, in vitro, l’effetto di campioni estratti da flaconi di shampoo, vasetti dello yogurt e altri contenitori di uso comune: sono stati trovati composti tossici sulle cellule, molti dei quali non identificati.
I produttori hanno naturalmente contestato lo studio, rivendicando la sicurezza dei polimeri e i controlli cui sono soggetti, ma restano comunque ampie zone d’ombra, a partire dai regolamenti della Fda americana. L’ente governativo per quanto attiene la sicurezza, si basa sulle informazioni fornite dalle aziende, e solo grazie a queste ammette o meno una plastica nella specifica classe di materiali che possono stare a contatto con il cibo. L’agenzia lascia poi anche alle industrie la possibilità di dire se un prodotto può, per esempio, essere usato nel forno a microonde o nella lavastoviglie, e non richiede aggiornamenti dei test (neanche su nuovi impieghi) per polimeri che, a volte, sono stati studiati negli anni Sessanta e poi mai più verificati.
In definitiva, quindi, il consiglio è quello di sostituire tutte le volte che si può la plastica con i metalli appositi o con il vetro, di non esporre le plastiche a fonti di calore o ad agenti chimici, di tenere sempre conto della data di scadenza (nel caso di bottiglie destinate a durare come quelle per fare l’acqua gasata in casa), e di non conservare olio e cibi grassi nella plastica.
© Riproduzione riservata
[sostieni]
Giornalista scientifica
Ottimi consigli finali , spero che tante persone facciano questo salto di qualità in ogni applicazione possibile.