Il 5 marzo, l’agenzia di stampa internazionale Reuters ha pubblicato una storia raccolta in esclusiva dalla giornalista Dominique Patton che fa capire quanta strada debba ancora fare la Cina per raggiungere gli standard di trasparenza considerati minimi per i paesi sviluppati, almeno per prevenire le pandemie.
La vicenda è quella del virus della peste suina africana, infezione che sta falcidiando porcilaie e allevamenti, causando la soppressione di milioni di capi, e che è già arrivata in Europa (se ne è occupata di recente anche l’EFSA). Ma il clima generale di segretezza, negli ultimi 19 mesi ha ostacolato la risposta all’epidemia, fino a quando non è stato più possibile negare l’evidenza. Ancora oggi, di quella che Patton definisce “una delle peggiori epidemie della storia tra gli animali da allevamento” si parla con difficoltà, tra i tentativi delle autorità locali di tenere nascoste le dimensioni del problema, i veti incrociati, i comportamenti imprudenti dei piccoli allevatori, penalizzati se denunciano, e i segreti di stato. In altre parole, la vicenda ricalca, in grande, quella del coronavirus.
Con la peste suina africana, le autorità di Pechino avrebbero infatti assunto lo stesso atteggiamento visto con COVID-19, cioè avrebbero prima negato e poi colpevolmente sottostimato l’entità della diffusione di un’infezione che avrebbe già dimezzato i 440 milioni di suini allevati nel paese, ridotto di un quarto quelli allevati nel mondo e, di conseguenza, alimentato un’impennata dei prezzi e un’inflazione mai vista negli ultimi otto anni.
Dal punto di vista infettivologico, inoltre, la mancanza di misure precauzionali stringenti e obbligatorie, di un sostegno adeguato agli allevatori per le perdite economiche e di stretti controlli su macellazione, eliminazione delle carcasse e trasporti avrebbe reso il virus inarrestabile, come dimostra la sua presenza in dieci paesi asiatici e in Europa. E naturalmente non poter tracciare l’evoluzione della malattia rende ancora oggi assai difficile programmare le giuste misure di contenimento.
Il ministro dell’Agricoltura cinese, racconta Patton, di fronte alle domande di Reuters ha risposto di aver invitato le autorità locali a migliorare i controlli e le denunce da tempo e in più occasioni, ma le interviste realizzate con decine di allevatori, macellatori e rivenditori raccontano una storia molto diversa. Più di una dozzina di loro ha infatti detto di aver denunciato un focolaio, ma che le segnalazioni non sarebbero mai entrate a far parte delle statistiche ufficiali di Pechino e, in molti casi, che le autorità locali si sarebbero rifiutate di eseguire i test specifici anche in seguito alla morte di numerosi capi, proprio per evitare di essere costrette a dire la verità. Addirittura, avrebbero spinto non pochi allevatori a compiere un’azione pericolosissima: l’avvio al macello ai primissimi segnali della malattia, con l’inevitabile immissione nei circuiti del virus e l’aumento esponenziale del rischio di uno spillover, un salto di specie, visto che la carne cruda e infetta entra in contatto con l’uomo.
Tutto ciò è avvenuto – e probabilmente continua ad avvenire – anche per timore di conseguenze politiche da parte del governo centrale e per la mancanza di fondi locali per i rimborsi agli allevatori, ed è alimentato dalle regole attuali per il contenimento della peste suina africana, stabilite nel 2015. Le norme impongono infatti di uccidere tutti i maiali della fattoria in cui si trovi il virus e anche tutti quelli nel raggio di 3 km: non un incentivo a denunciare, nonostante il rimborso di circa 175 dollari per capo abbattuto, fornito in misura variabile tra il 40 e l’80% dal governo centrale e il resto da quelli locali ma, secondo gli allevatori, spesso mai erogato.
Così la peste suina africana ha continuato a diffondersi, anche se ci sarebbe stato tutto il tempo per prevenire e contenere, visto che le prime segnalazioni sono state fatte addirittura nel 2007, quando l’infezione ha iniziato a manifestarsi nei paesi della regione caucasica. Va detto che è impossibile non accorgersi della malattia in corso, perché si tratta di una febbre emorragica (non dissimile da Ebola), che causa febbre altissima, arrossamenti, perdita di appetito, sanguinamento, emorragie e infine morte di percentuali altissime di maiali, e contro la quale non esistono né cure né vaccini. L’unico provvedimento possibile è la soppressione tempestiva di tutti gli animali dell’allevamento, seguita dalla distruzione delle carcasse tramite incenerimento o sepoltura con modalità sicure e da una profonda disinfezione di personale e strutture entrate in contatto con gli animali malati, dal momento che questo virus resiste per giorni su strumenti di lavoro, gabbie, camion e così via.
Ufficialmente, il primo caso si è verificato nell’agosto del 2018, in una fattoria di Shenyang, nella provincia nordorientale di Liaoning. Due settimane dopo il virus è comparso a più di mille chilometri di distanza verso sud, in maiali comprati dal principale rivenditore del paese, il WH Group, e provenienti da un’altra provincia del nord-est, Heilongjiang. Pechino, però, ha impiegato altre due settimane per imporre le prime, poco convinte restrizioni al trasporto dei suini dal nord del paese: una ritrosia che si spiega anche con le abitudini alimentari dei cinesi, che preferiscono sempre (non solo nel caso dei maiali) carne appena macellata, e amano pochissimo quella refrigerata, alimentando così l’incessante e quotidiano trasporto di migliaia e migliaia di capi – e dei virus che essi ospitano – da una parte all’altra del paese.
Quattro mesi dopo, non passa giorno senza che non venga denunciato un nuovo focolaio in ogni regione, anche se le zone d’ombra continuano a essere molte, e sospette. Per esempio, non è praticamente mai stata denunciata la presenza di un focolaio nelle tre provincie settentrionali contigue di Hebei, Shandong ed Henan, dove si concentra un gran numero di allevamenti, in gran parte medio-piccoli e a conduzione familiare, e da dove è arrivato il 20% dei 700 milioni di suini macellati nel paese nel 2017: un dato a dir poco improbabile, reso ancora meno credibile dalle numerose testimonianze di focolai che secondo fonti interne all’industria potrebbero aver causato la morte di milioni di capi. Inoltre, altro fatto poco credibile, praticamente nessuno dei grandi produttori del paese ha denunciato pubblicamente infezioni nei propri allevamenti.
Le autorità locali – riporta Patton – affermano di avere la situazione sotto controllo. Eppure sei degli allevatori intervistati da Reuters hanno detto di aver denunciato casi sospetti tra il 2018 e il 2019, ma che le autorità non hanno mai eseguito test specifici. Per esempio uno di essi, Wang Shuxi, nel 2019 ha perso 400 maiali, ed era sicuro della presenza delle peste suina africana nel suo allevamento, ma le autorità locali non hanno mai controllato e lui stesso non ha mai potuto effettuare il test, perché le autorità di Pechino ne hanno vietato il commercio.
Nell’aprile del 2019 Pechino afferma di aver stanziato 630 milioni di yuan per 1.01 milioni di maiali sacrificati, ma numerosi allevatori (dozzine direttamente a Patton) controbattono di non aver mai visto neppure uno yuan, e di non aver ricevuto aiuti neppure per l’eliminazione delle carcasse, fatto che li avrebbe spinti a sbarazzarsene abbandonandoli sulle montagne, per le strade, nei boschi. Un’altra fonte di contaminazione è l’abitudine di nutrire i maiali con gli scarti, compresi quelli della macellazione, origine di 23 focolai nel 2018.
Per tutti questi motivi, nel 2019 il governo ha annunciato una stretta sui controlli e punizioni per le autorità locali che non denunciano, ma evidentemente c’è ancora parecchia strada da fare, se le ultime ispezioni, i cui risultati sono stati resi pubblici nel gennaio 2020, hanno evidenziato la presenza del virus nel 5% degli oltre 2.000 campioni prelevati in novembre. Secondo uno studio australiano la percentuale di carni infette tra quelle giunte via mare o via cielo in Australia con i viaggiatori provenienti dall’Asia sarebbe addirittura del 48%.
I dati ufficiali, resi noti in gennaio, parlano di 163 focolai (da quel primo del 2018) e di 1,19 milioni di suini abbattuti, nonché di una diminuzione dei casi del 41% rispetto all’anno precedente. Secondo molti veterinari però è in atto una seconda epidemia, soprattutto in alcune province, dove si sarebbe reso necessario l’abbattimento del 60% dei suini presenti.
Ma, ancora una volta, le autorità locali negano, confondono, minimizzano. In attesa del prossimo spillover.
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Giornalista scientifica
Purtroppo non è sempre così, e per quanto raro il salto di specie è un possibilità.
“Come indicato, la peste suina africana colpisce esclusivamente i suini e il virus non è in grado di compiere il salto di specie, dunque non può infettare uomo. In parole semplici, ne siamo immuni. Il virus, inoltre, viene completamente debellato con la cottura della carne. Il pericolo principale per l’uomo, come specificato, è rappresentato dagli enormi danni socioeconomici che i focolai di questa malattia infettiva riescono a produrre quando si manifesta gli allevamenti.”
Quindi è prevedibile che il prossimo salto di specie di un virus potrebbe essere quello della peste suina.
Vista la mia età, spero di non esserci più. Chi ci sarà si arrangerà.