Origine della pasta: perchè non viene indicata chiaramente in etichetta? Le riposte di Barilla, De Cecco, Granoro, Divella, La Molisana, Garofalo
Origine della pasta: perchè non viene indicata chiaramente in etichetta? Le riposte di Barilla, De Cecco, Granoro, Divella, La Molisana, Garofalo
Roberto La Pira 13 Febbraio 2014Qualche settimana fa Il Fatto Alimentare ha inviato alle aziende produttrici di pasta (Barilla, Agnesi, De Cecco, Del Verde, La Molisana, Granoro, Garofalo, Divella, Armando) una lettera invitandole a riportare sull’etichetta la origine della pasta e a spiegare le motivazioni che spingono i pastifici più famosi a importare la materia prima da Stati Uniti, Canada, Francia… Una parte di consumatori ritiene importante questo aspetto, anche se da un punto di vista qualitativo si tratta di un elemento poco significativo. L’Italia importa grano duro di alta qualità perchè quello prodotto da noi copre solo il 60 % del fabbisogno e non si tratta di una novità. Basta guardare le vecchie fotografie esposte in alcuni pastifici di Gragnano, per vedere le immagini delle navi russe che sbarcano sacchi di grano nel porto di Napoli.
Uno dei motivi di polemica quando si parla di pasta è la dicitura “made in Italy” su alcune confezioni presente anche quando si usa grano duro importato. Gli spaghetti sono “prodotti in Italia”, perché il grano duro estero viene prima trasformato in semola e poi miscelato con acqua per diventare pasta. Le due lavorazioni sono fatte sul nostro territorio e questo autorizza la scritta “made in Italy”. In commercio esistono spaghetti prodotti utilizzando “100% grano italiano”, ma questa scelta, pur essendo apprezzabile, non attesta una qualità superiore. La bontà non è legata all’origine della materia prima, ma alla qualità della materia prima e alla capacità di saper fare spaghetti.
A distanza di poco tempo ci hanno risposto quasi tutte le aziende, ecco una sintesi delle argomentazioni.
Barilla
L’azienda utilizza il più possibile grano di provenienza locale, anche per motivi di convenienza economica. Barilla ha inoltre firmato due accordi – giunti all’ottava edizione – per valorizzare il patrimonio agricolo italiano: anche in questo caso vengono dati premi agli agricoltori che forniscono il frumento migliore. Detto questo, il 20% circa del grano proviene comunque dall’estero.
De Cecco
De Cecco ha “aperto le danze”, rispondendo per prima al quesito di un lettore sulla liceità della bandierina italiana a fronte di un prodotto fatto con materie prime provenienti anche da altri Paesi. L’azienda ha risposto precisando fin da subito che è possibile vantare il “made in Italy” purché la produzione avvenga in Italia, visto che è proprio la qualità della pasta in quanto tale a essere fondamentale. «I consumatori di tutto il mondo associano la qualità della pasta non tanto all’origine dei grani utilizzati (che sin da tempi storici sono anche di provenienza straniera), bensì al know-how italiano e all’arte dei maestri pastai italiani, che si concretizza principalmente nelle fasi di impasto, taglio, trafilatura ed essiccazione. A monte di tutto questo c’è anche la scelta dei grani, che per ottenere una pasta di qualità viene effettuata non tanto in base all’origine, quanto soprattutto in base alle caratteristiche merceologiche, chimiche, organolettiche».
Divella
Divella, sottolineando come le altre aziende, l’utilizzo di grano proveniente da Canada, Australia e America per circa il 40/50%, spiega in modo più chiaro rispetto agli altri come mai esiste tanta resistenza nell’indicarlo in etichetta. Queste indicazioni devono infatti riguardare le miscele di grani, costituite proporzioni differenti, da cui si ottiene la semola «che possono durare per circa due mesi di produzione. Deriva, quindi, la modifica delle miscele con consequenziale modifica delle etichette e con quali imballi non conoscendo, a priori, l’esatta miscela? Per ottenere gli imballaggi (cellofan al 95 per cento), occorrono dai tre ai sei mesi e allora come è possibile disporre di imballaggi aggiornati? La F. Divella produce e confeziona, giornalmente, 2.400.000 pacchetti di pasta e non disponendo conseguentemente di imballi aggiornati dovrebbe fermare obbligatoriamente la produzione». Divella inoltre fa notare che non è sufficiente il grano italiano a soddisfare il fabbisogno, soprattutto in termini di caratteristiche analitiche ottimali.
Garofalo
Garofalo sottolinea il concetto di qualità, che va ben oltre la provenienza italiana. Per un’ottima pasta è necessario scegliere i grani migliori, indipendentemente da dove provengano, senza transigere sulle garanzie di salubrità e di controllo.
Granoro
La risposta di Granoro, esaustiva nella spiegazione di cosa si intende per “made in Italy”, rimanda alla sezione FAQ del loro stesso sito, dove scrivono che le semole impiegate per la pasta sono acquistate dai mulini del nostro territorio e sono ottenute da grani duri di qualità coltivati in Italia, Canada, Stati Uniti, Australia, Francia, Grecia e Spagna. Inoltre l’azienda ha stabilito un accordo di filiera, chiamato Granoro Dedicato alla nostra terra, giunto ormai al terzo anno di coltivazione, che ha come obiettivo quello di sostenere gli agricoltori pugliesi con l’erogazione di premi legati alla qualità del grano. Da qui è nata la prima pasta con grano al 100% pugliese.
Per quanto riguarda l’indicazione in etichetta, Granoro si dimostra disponibile a esprimere in etichetta la composizione purché sia chiaro che il fabbisogno italiano di grano non è sufficiente.
La Molisana
Anche per Molisana troviamo sul loro sito la risposta al nostro quesito: «per ottenere un prodotto che sia tenace, con un alto valore proteico e un apprezzabile indice di giallo, è necessario miscelare sapientemente diverse varietà di grano duro, in gran parte italiano, con ottima tenacità, e in parte estero (prevalentemente statunitense, canadese o australiano). È intuibile che un’azienda come la nostra, che opera nel sud Italia a 50 Km dalla zona maggiormente vocata alla produzione di grano duro, storicamente il Granaio d’Italia, utilizzi in prima istanza il miglior grano molisano-pugliese e successivamente, in mancanza dello stesso, si rivolga ad altre zone limitrofe di produzione e in ultima istanza si diriga dovunque si trovi la miglior qualità di grano duro al mondo. È noto che la produzione di grano duro in Italia non è sufficiente (da meno 20% a meno 50% a seconda delle stagioni), per cui è indispensabile acquistare la differenza in altre zone del mondo».
Ringraziando tutte le aziende che ci hanno riposto vorremmo sottoporre all’attenzione di tutte la soluzione adottata da Coop che, attraverso il web, permette ai consumatori di conoscere l’origine della materia prima ( e anche del grano duro per la pasta) inserendo il numero di lotto. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di indicare sull’etichetta l’elenco completo dei paesi da dove viene importato il grano duro.
Possiamo concludere dicendo che non esiste una reticenza di principio da parte delle aziende nel voler comunicare la provenienza del grano duro utilizzato. Certo la questione dell’indicazione in etichetta non è scontata, ed è collegata anche a motivi logistici come la proporzione variabile delle miscele e la difficoltà di avere a disposizione l’imballaggio corretto nei tempi giusti. Un altro ostacolo è correlato alla discussione in sede europea della normativa in merito all’indicazione geografica degli alimenti come la pasta composti da un solo ingrediente, che si tradurrà presto in legge. Una cosa però deve essere chiara a tutti, il “made in Italy” della pasta considerata una delle migliori al mondo è strettamente collegato al grano duro importato.
Roberto La Pira
Foto: photos.com
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza in test comparativi. Come free lance si è sempre occupato di tematiche alimentari.
penso che l’italia ha una grandissima cultura culinaria non solo per le materie prime, ma anche per la bravura a trasformarle, esempio è il caffè italiano uno se dei migliori al mondo anche se in italia non si coltiva un solo chicco, per cui il made in italy non può essere circoscritto sono alle produzioni italiane.
Alla fine dell’articolo a quale normativa europea si fà riferimento?
grazie M.G.
Giuseppe si fa riferimento al regolamento UE 1169/2011
Secondo me non è fondamentale la provenienza (se non per un fattore di inquinamento legato al trasporto). Bisognerebbe concentrarsi sulla qualità delle varietà di grano, da cui deriva l’abbondanza di glutine. Tendenzialmente le varietà di partenza sono di pessima qualità nutrizionale, ma con elevate prestazioni industriali, perché sono più facilmente lavorate dai macchinari, ma non è certo un vantaggio per noi consumatori!
La questione è in effetti controversa anche nella mia mente: da una parte sarebbe corretto far conoscere l’origine delle materie prime, dall’altra, di fatto significa poco, perchè il consumatore non sta acquistando del grano o della farina, ma della pasta, un prodotto trasformato che non si vanta di alcuna denominazione d’origine. Concluderei la mia riflessione dicendo che un’informazione completa è importante, ma è imprescindibile che raggiunga un consumatore consapevole.
Ergo, lavorare tutti (aziende di trasformazione comprese)per fornire strumenti di conoscenza, attraverso un’informazione veritiera e completa.
In Italia ci sono grandi marche di cioccolato …..
risulta a qualcuno che in Italia si coltivino piante di cacao? E cos’è il cacao senza una sapiente lavorazione? Non è che chiunque sia capace di fare un buon cioccolato: la tradizone di un paese fa la differenza, come per la pasta o i salumi e via dicendo.
Mi dichiaro d’accordo con molti interventi circa l’inutilità dell’indicazione delle origini delle materie prime e dell’enorme difficoltà per molteplici ovvie ragioni, forse ancora a tutti non chiare o ideologicamente convincenti, a riportarle in etichetta per “permettere un’immediata scelta etico-autarchica” al consumatore nell’immediato momento dell’acquisto Procedendo con questo atteggiamento di chiusura ottusa ed autarchica di fronte all’evidenza di un mercato globale, dove si deve selezionare invece la migliore qualità, ed a una sottovalutazione del vero vantaggio Italiano dell’eccellenza del saper fare e trasformare materie prime ed alimenti, arriveremo forse per assurdo a pretendere l’indicazione in etichetta di macchinari italiani ,con ferro estratto da miniere italiane? ma anche da operai tutti italiani?
Avrei un paio di domande inerenti a questo tema: perchè la quantità di grano duro prodotto in Italia non è sufficiente? Ci sono forse anche qui delle quote di produzione (ridicole) imposte dalla UE?
Riguardo al grano importato da Stati Uniti, Canada e Australia, mi piacerebbe però sapere se si tratta di coltivazioni OGM; penso che questo dovrebbe essere indicato sulle etichette, perché i consumatori possano esercitare il loro sacrosanto diritto di scelta.
Non si tratta di grano OGM ! Queste sono favole.
Purtroppo i lettori-consumatori che “ignorano” incolpevolmente i veri processi, sono indifesi e creduli davanti alle bufale di cui si arricchisce ancora troppo spesso per incuranza, ignoranza, ingenuità, ideologia , e sovente per dolo , la carta stampata.
L’azione meritevole di discussione e confronto aperto teso a chiarire e sviscerare i fatti, anche con l’apporto significativo di consumatori ignari e gabbati dalle “favole” come le definisce La Pira, avrebbe secondo me necessità di trasferirsi periodicamente in apposita rubrica, magari in sunto fedele, sulle pagine del Corriere della Sera per un pubblico più vasto come elemento e momento di chiarezza.
Il grano come prodotto finito non è OGM (almeno quello importato in italia) ma puo esssere trattato con elementi chimici di derivazione OGM (e spesso lo è soprattutto in USA e Canada)
In effetti , di ottuso, in questa discussione c’è secondo me c’è il voler riconoscere solo “le proprie ragioni ideologiche” senza pensare/consentire che ce ne siano altre diametralmente opposte.
Vedi il commento di Chiara che indica ad esempio un altro parametro da prendere in considerazione… l’inquinamento dovuto al trasporto. Ma ovviamente a chi procude non fa piacere di analizzare anche questo parametro e alla fine la colpa è sempre di chi ha delle “ideologie chiuse ed estremiste” …