Olio di palma: Greenpeace avverte del rischio “greenwashing”. Sono necessarie manovre più organizzate e definite per una coltivazione sostenibile
Olio di palma: Greenpeace avverte del rischio “greenwashing”. Sono necessarie manovre più organizzate e definite per una coltivazione sostenibile
Valentina Murelli 3 Febbraio 2015«La richiesta di olio di palma è al massimo storico, come pure la consapevolezza che la produzione rappresenti la causa principale di deforestazione in paesi come l’Indonesia. Il momento dunque è critico, ma i progressi fatti possono trasformarsi in greenwashing, se i principali protagonisti del settore non si orienteranno definitivamente verso filiere che escludono la deforestazione». Parola di Annisa Rahmawati, rappresentante di Greenpeace Southeast Asia per il settore foreste, che in un articolo sul quotidiano britannico Guardian punta il dito in particolare contro l’RSPO, la tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile. Si tratta di un’iniziativa internazionale animata da produttori, industrie alimentari e organizzazioni ambientaliste, che però secondo Rahmawati non sta facendo abbastanza per proteggere le foreste. Limitandosi a un po’ di greenwashing.
Sul fatto che le foreste tropicali siano le prime vittime dell’olio di palma non c’è alcun dubbio. Come riporta un dettagliato documento del Cifor (Centro per la ricerca internazionale sulle foreste) dal significativo titolo Palm of controversies (“Le palme della discordia”), nel giro di pochi decenni l’Indonesia ha perso oltre 5 milioni di ettari di foreste primarie, convertite in monocolture di palme da olio, e oltre 4 milioni ne ha persi la Malesia, con effetti disastrosi sulla biodiversità locale. Del resto, abbattere foreste è, per varie ragioni, un sistema molto comodo per chi voglia avviare una piantagione di palme. Secondo quanto riferito dal documento del Cifor, difficilmente i paesi interessati conferiscono ai propri cittadini diritti di proprietà sulle foreste, che vengono invece gestite da organismi centralizzati. Assicurarsi da qualche funzionario disonesto la concessione allo sfruttamento di un’area di foresta primaria è spesso più facile (e meno costoso) che negoziare con singoli proprietari la cessione di piccoli appezzamenti già disboscati e coltivati. In più, prima di diventare un campo agricolo, la foresta fornisce legname, mentre i roghi per la pulizia finale lasciano sul terreno cenere buona per la terra, che abbatte i costi iniziali di concimazione.
Ecco perché per molte associazioni ambientaliste, come Greenpeace, la lotta alla deforestazione è uno dei temi cardine della produzione sostenibile di olio di palma. Un tema rispetto al quale l’RSPO fa ancora troppo poco. Le critiche di Rahmawati alla Tavola rotonda non sono certo le prime: il Cifor sottolinea, per esempio, il fatto che i principi proposti per la certificazione di sostenibilità siano troppo ampi e vaghi, che l’adesione a questi principi sia fatta su base volontaria e non segua procedure rigorose. C’è di più, molti membri fanno confusione tra l’adesione alla Tavola e la reale certificazione di sostenibilità, si tratta quindi di un processo ancora da standardizzare e regolamentare con l’intervento di organismi esterni.
Nell’articolo sul Guardian, Annisa Rahmawati riporta altri esempi di iniziative adottate da singoli attori della filiera dell’olio di palma più attivi di RSPO , indirizzati ad una produzione sostenibile che davvero non preveda l’abbattimento di nuove foreste. Tra questi, Wilmar, il principale trader al mondo, o Golden Agri Resources, principale produttore in Indonesia, o grandi consumatori come L’Oréal, Procter and Gamble, Unilever, Colgate Palmolive (ricordiamo che l’olio di palma è ampiamente usato anche nell’industria cosmetica). Tutti si sono ufficialmente impegnati ad arrestare la produzione e il commercio di olio di palma legato a deforestazione. E si sono uniti ai membri del Palm Oil Innovation Group (che comprende altri produttori minori, oltre a varie ONG come Greenpeace stessa) per sviluppare e promuovere nuovi standard di sostenibilità, che partano da quelli di RSPO ma aggiungendo nuovi criteri relativi alla protezione delle foreste.
Insomma, secondo Greenpeace la palma da olio può essere effettivamente coltivata in modo sostenibile, ma perché questo accada occorre l’impegno di tutti. Compreso quello della ricerca scientifica e agronomica, ricorda inoltre il documento Cifor, perché si trovino nuove soluzioni per ottimizzare la resa delle piantagioni, troppo spesso ben lontana dall’ottimale.
Valentina Murelli
foto: istockphotos.com © Riproduzione riservata
Il Fatto Alimentare e Great Italian Food Trade hanno lanciato una petizione online su Change.org per fermare l’invasione dell’olio di palma nei prodotti alimentari.
Abbiamo già raccolto 98 mila firme e cinque catene di supermercati hanno deciso di eliminare il grasso di palma dai loro prodotti !
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giornalista scientifica
cambiamo alimentazione si a quella sana e sostenibile per tutti
Firmata e condivisa su TW. L’olio di palma è usatissimo anche dalle rosticcerie per la preparazione dei cibi da asporto. Spesso passando davanti ai cassonetti vicino le rosticcerie e i ristoranti trovo le latte di olio di palma vuote appoggiate a terra. Secondo me i gestori neanche conoscono la problematica e il Ministero della Salute o le associazioni che si occupano di questa cose dovrebbero inviare materiale illustrativo x spiegare ai gestori che tipo di rischi c’è per la salute dei cittadini e x l’ambiente. Inoltre si dovrebbe controllare se le ditte che si occupano di ristorazione scolastica non usino l’olio di palma x la preparazione dei cibi destinati a bambini/ragazzi.