È il 1986 quando il giornalista Jay Westerveld conia il termine “greenwashing” in riferimento all’abitudine degli hotel di mettere il cartello per invitare al riutilizzo degli asciugamani facendo leva sull’impatto ecologico del loro lavaggio quando in realtà l’esortazione ha scopi prettamente economici. La motivazione legata al taglio dei costi di gestione viene nascosta da uno strato di ecologismo, una pratica, quest’ultima, che si è sempre più raffinata, tanto che oggi si sente l’esigenza di imporre alle aziende l’ottenimento di certificazioni di conformità sull’attendibilità delle loro asserzioni.
In un mondo sempre più compromesso a livello ambientale, sono, infatti, numerose le multinazionali – ma anche le realtà più piccole – che cercano di attirare i consumatori attraverso messaggi che promuovono in modo ingannevole caratteristiche positive di sostenibilità dei propri prodotti e servizi. Tali dichiarazioni che pubblicizzano la condotta eco-friendly delle imprese sono chiamate “green claim” e spesso risultano promesse non mantenute.
La legge sulle dichiarazioni ambientali
È la stessa Commissione Europea a riferire che il 53% delle dichiarazioni verdi fornisce informazioni vaghe, fuorvianti o infondate, che il 40% delle stesse non ha prove a sostegno e che la metà di tutti i green claim offre una verifica debole o inesistente. Un contesto che ha spinto l’UE a pensare a una legislazione specifica per contrastare il problema del greenwashing e proteggere ambiente e consumatori. A marzo di quest’anno il Parlamento Europeo si è dimostrato favorevole a una proposta di direttiva che stabilisce un sistema di verifica e pre-approvazione delle dichiarazioni di marketing ambientale da una terza parte, obbligando le imprese a fornire prove concrete a supporto delle loro affermazioni prima di pubblicizzarle.
Ciò si traduce, per esempio, nell’impossibilità di fornire indicazioni ambientali generiche come “naturale”, “che salvaguardia l’ambiente” senza che queste siano fornite in base ai requisiti stabilita dall’Unione Europea. Di commercializzare un prodotto come “realizzato con materiale riciclato” laddove solo l’imballaggio è realizzato in questo modo. Di formulare asserzioni che sostengono che un prodotto ha un impatto neutro, ridotto o positivo sull’ambiente in termini di emissioni di gas a effetto serra poiché inducono i consumatori a credere che l’impiego di tale prodotto non abbia alcuna ricaduta ambientale.
Un’autorità contro greenwashing
Per far rispettare la corretta applicazione delle norme, la direttiva imporrebbe ai Paesi membri di nominare un’Autorità competente incaricata di controllare quanto dichiarato dalle aziende e di sanzionare eventuali violazioni con multe fino al 4% del fatturato annuo e la possibilità di esclusione temporanea dalle gare d’appalto pubbliche.
Per capire come in Italia le aziende stanno affrontando il rischio di greenwashing è interessante menzionare i dati proposti da ESG. Identity Corporate Index – l’indice quantitativo che misura le pratiche ambientali, sociali e di governance delle imprese italiane. Al 31 dicembre 2023 solo il 7% delle aziende ha affermato di aver adottato una strategia specifica per la gestione e la verifica dei green claim, al contrario circa il 62% delle aziende interrogate ha dichiarato di aver ricorso a un piano per la gestione delle dichiarazioni verdi.
Tra queste ultime, il 23% ha affermato che i green claim non costituiscono un tema per la propria impresa. Al netto di questo tentativo di convalidare la veridicità di quanto dichiarato in fatto di sostenibilità ambientale, è bene ricordarsi che dal fenomeno del greenwashing si sono sviluppate due sue derivazioni: il greenhushing e il greenbleaching. Il primo avviene quando un team di gestione aziendale sotto dichiara o nasconde le credenziali di sostenibilità al fine di eludere i controlli degli investitori, mentre il secondo termine si utilizza quando gestori di fondi che investono in attività sostenibili si astengono dal dichiararlo per evitare di dover assolvere a requisiti normativi aggiuntivi e di imbattersi in un potenziale normativo o legale. Come spesso accade, fatta la legge, trovato l’inganno.
Alcuni casi di greenwashing
Il settore alimentare e quello delle bevande è uno dei maggiori responsabili dell’inquinamento globale causato dalla plastica: i tempi di degradazione di una bottiglia possono raggiungere i 450 anni. Non è dunque raro assistere proprio in questo comparto a fenomeni di greenwashing come quello che ha coinvolto la Coca-Cola. Nel 2021, l’Earth Island Institute intentò una causa contro la multinazionale statunitense che si definiva sostenibile ed ecologica quando in realtà generava più plastica di qualsiasi altra azienda la mondo.
Lo scorso anno, invece, BEUC, il gruppo europeo che raccoglie le associazioni di consumatori, ha denunciato alla Commissione Europea alcune tra le principali aziende produttrici di bottiglie d’acqua potabile come Coca-Cola, Danone e Nestlé perché colpevoli di almeno tre informazioni fuorvianti. Sotto accusa le dichiarazioni “100% riciclabile”, poiché rappresenta un termine ambiguo che dipende da molti fattori come l’infrastruttura disponibile per la raccolta di materiale, l’efficacia del processo di smistamento o processi di riciclaggio appropriati; “100% riciclato”, quando invece i tappi delle bottiglie non possono essere realizzati con materiali riciclati dal diritto dell’UE e le etichette sono raramente realizzate con materiale riciclato; l’utilizzo di illustrazioni “green” come loghi verdi o immagini della natura che suggeriscono una falsa idea di neutralità ambientale delle bottiglie.
Guardando a cosa succede in Italia, recentemente l’azienda San Benedetto è finita nell’occhio del ciclone per le bottiglie d’acqua pubblicizzate come “ecogreen” e a “zero impatto CO2”. È sempre San Benedetto che nel 2010 fu condannata per pratiche commerciali scorrette, un episodio significativo poiché per la prima volta l’Antitrust riconobbe la “deriva ambientalista” dei claim definendone i limiti.
© Riproduzione riservata
Siamo un sito di giornalisti indipendenti senza un editore e senza conflitti di interesse. Da 13 anni ci occupiamo di alimenti, etichette, nutrizione, prezzi, allerte e sicurezza. L'accesso al sito è gratuito. Non accettiamo pubblicità di junk food, acqua minerale, bibite zuccherate, integratori, diete. Sostienici anche tu, basta un minuto.
Dona ora
Un marketing molto diffuso specialmente nel fashion:capi di abbigliamento prodotti in Asia e Africa con materiali come all’80%sintetici e 20%cotone di dubbia qualità, alimentazione:la truffa delle minerali che sono eco-friendly con confezioni di plastica sia da 6 o 12 bottiglie per nulla biodegradabile, le bottiglie che sono di pet, o altri polimeri, e contenitori di pasti preconfezionati pronti all’uso, ma tutto è greenwashing quando si entra in un supermercato, qualsiasi confezione che è sigillata ermeticamente in confezioni di materiale plastico con il simbolo e nr.di riferimento 3,4 o altri non significano completamente biodegradabile e quello è puro greenwashing, come spazzolini per pulizia orale e dentifrici quello è la beffa più grande, se si gira la confezione di un dentifricio c’è tutta la chimica che vogliamo più greenwashing di così, e per non parlare delle confezioni o come sono fatti gli spazzolini, che con microplastiche invadono il nostro corpo.