Ci somigliano, eppure li disprezziamo: è questa l’apparente contraddizione intorno alla quale ruota il saggio Un po’ come noi. Storia naturale del maiale (e perché lo mangiamo) dello storico norvegese Kristoffer Hatteland Endresen, appena pubblicato da Codice Edizioni. Per capire la nostra ambivalenza nei confronti di quest’animale, apprezzato a livello gastronomico ma al tempo stesso simbolo di quanto c’è di più brutto e volgare, l’autore si è fatto assumere in un allevamento intensivo: oltre a ripulire stalle, alimentare i maiali rischiando qualche morso e aiutare a fecondare le scrofe ha seguito una cucciolata di maialini per sei mesi, dalla nascita alla macellazione.
La Norvegia, è noto e risulta evidente anche dal testo, è un paese in cui il benessere animale è abbastanza tutelato, ma anche così l’autore racconta, oltre al disgusto per il fetore emanato dalle stalle, i suoi dubbi sulla legittimità di nutrirsi di un animale che ha molti punti di contatto con noi, tanto da essere utilizzato per la formazione dei medici, ma anche come fornitore di organi da trapiantare. Al tempo stesso, Endresen deve fare i conti con la difficoltà di stabilire un rapporto empatico con gli animali di cui è chiamato a prendersi cura. Tanto che la sua critica agli allevamenti intensivi, oltre che dalle considerazioni legate all’impatto ambientale di queste strutture e alle resistenze generate dall’uso indiscriminato di antibiotici, nasce dal fatto di trasformare delle creature viventi in “animali industriali” – la definizione è del responsabile dell’allevamento – della cui sorte possiamo legittimamente disinteressarci.
Potrebbero piacerci
Eppure i maiali potrebbero piacerci: hanno capacità cognitive elevate, superiori a quelle di molti animali domestici, ed esperimenti realizzati negli anni ’90 mostrano che non solo sono in grado di giocare a un semplice videogame, ma si divertono anche a farlo, tanto che gli autori dello studio sono stati costretti ad allontanarli con la forza dalle postazioni. Perché allora costringerli in un ambiente angusto e privo di stimoli, in cui l’unico incontro col mondo esterno, racconta Endresen, avviene nel tragitto tra le stalle e il camion che li conduce al macello?
In passato le cose andavano diversamente: il processo di domesticazione, che ha trasformato gradualmente in maiali domestici – sus scrofa domesticus – gli animali selvatici che si avvicinavano agli accampamenti per nutrirsi di rifiuti è cominciato nell’odierna Turchia circa undicimila anni fa. Per millenni i maiali hanno vissuto vicini agli umani, liberi di muoversi e alimentarsi con gli scarti alimentari. Anche se oggi sono nutriti con mangimi supernutrienti, infatti, i maiali sono onnivori esattamente come noi, una caratteristica che ne conferma l’intelligenza e la capacità di scegliere gli alimenti più adatti a loro. E che, ricorda l’autore, ha portato poco più di un secolo fa a scambiare il dente di un maiale preistorico per quello di un misterioso ominide.
I maiali oggi: invisibili e disprezzati
Oggi invece i maiali sono pressoché invisibili, anche se negli allevamenti ce ne sono circa un miliardo, e le pratiche cruente dell’abbattimento e della macellazione si svolgono lontano dai nostri occhi: quello che ci arriva sono alimenti incellofanati – in Norvegia soprattutto salsicce e wurstel -. Endresen menziona studi che mostrano come i lavoratori dei macelli siano spesso associati a disturbi o comportamenti devianti dovuti forse al contatto costante con pratiche crudeli. Inoltre, con l’allevamento, i maiali sono cambiati anche dal punto di vista fisiologico: un tempo erano pelosi e veloci, oggi sono più grandi, più lunghi e con più costole, ma sono anche diventati progressivamente più magri, almeno fino alla recente riscoperta dei grassi animali che è andata, nota Endresen, di pari passo con la demonizzazione dei carboidrati.
Stupisce che la carne di maiale sia, nonostante tutto, un alimento proibito per alcune religioni: un divieto difficile da spiegare – la difficoltà di conservare la carne in ambienti caldi, nota l’autore, vale anche per altri animali – che potrebbe derivare dal fatto che i maiali, oltre a essere difficilmente classificabili in quanto dotati di zoccolo fesso ma non ruminanti, sono animali stanziali, meno adatti di capre e buoi alla vita nomade, oltre a essere stati in alcune epoche identificati come cibo per poveri.
Le ragioni del disgusto
D’altronde il disgusto per questi animali è diffuso anche tra chi ne consuma la carne: una reazione dovuta forse alla loro antica abitudine di nutrirsi di rifiuti, carogne e, in tempi passati, anche cadaveri, oltre che a un aspetto poco accattivante che non corrisponde a quei criteri di affinità con un cucciolo o un bambino piccolo – fronte alta, occhi grandi e musetto piccolo – su cui si basano in genere le nostre preferenze. È noto che, anticamente, i maiali potevano essere processati e condannati a morte per i “crimini” commessi, il che, nota l’autore, è avvenuto in qualche caso anche per altri animali, ma non con la stessa frequenza: in diverse occasioni si è perfino cercato di indurre il maiale accusato a confessare la propria colpa sotto tortura.
A chiusura del saggio, Endresen dichiara di aver fallito il suo obiettivo iniziale di entrare in relazione con un maiale. Del suo racconto restano l’impatto con i macelli e le riflessioni sul benessere animale, che pesano anche se, ammette l’autore, non lo faranno smettere di mangiare carne. Mentre le notizie recenti sulla peste suina e altre zoonosi lo spingono a riflettere sulle conseguenze passate – e future – della nostra abitudine di rendere la carne uno degli alimenti fondamentali nella nostra dieta.
Un po’ come noi. Storia naturale del maiale (e perché lo mangiamo), di Kristoffer Hatteland Endresen, Codice Edizioni.
© Riproduzione riservata; Foto: Fotolia, Codice Edizioni
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giornalista scientifica
Il divieto della carne di maiale in alcune religioni, segnatamente l’Islam e l’Ebraismo, nasce anche da altre considerazioni: l’animale è inadatto ai climi molto caldi tipici delle zone dove queste religioni hanno avuto origine, per via delle sue alte necessità alimentari e di acqua (il fatto che in Europa si sia sempre cibato di “scarti e rifiuti”, non vuol dire che sia un animale “parco nei consumi”), ha una certa aggressività, specie se stressato (come quando scarseggia di acqua e cibo) che è un fattore non secondario in economie in cui erano soprattutto i bambini che pascolavano – e lo fanno tuttora – gli animali, e lo facevano in ambiti desertici o predesertici in cui le risorse non sono molte.
Inoltre ha più facilità di altri a diventare serbatoio di batteri patogeni, anche questo un rischio importante in climi caldi, sia nell’allevamento che nella gestione delle carni post-macellazione (ovviamente rapportato alle conoscenze igienico-sanitarie di un paio di migliaia di anni fa…).
In effetti, a prescindere dai precetti islamici o ebraici in merito, non si può negare che quei territori non fossero certo i posti migliori dove allevare suini…
Articolo molto interessante.
Grazie per la segnalazione di questo saggio.
Cordiali saluti.
Per capire qualcosa in più della psicologia suina viene eseguito il Family Pig Project nel 2017 presso al Dipartimento di Etologia, a Budapest.
Gli animali vengono allevati in un ambiente simile a quello dei cani in famiglia, fornendo la base per indagini comparative uniche tra le due specie”, spiega Attila Andics, ricercatrice e autrice dello studio.
“Abbiamo usato il cosiddetto paradigma del compito irrisolvibile, in cui l’animale deve prima affrontare un problema che può risolvere, nel nostro caso una scatola facile da aprire con del cibo all’interno.
Dopo alcune prove, il problema diventa irrisolvibile perché la scatola ha una chiusura di sicurezza.
Ebbene, le differenze sono apparse quando abbiamo messo il cibo nella scatola e aprirlo è diventata una sfida eccitante.
I maiali erano più veloci dei cani nel risolvere il compito e ottenere la ricompensa, forse a causa delle loro migliori capacità manipolative.
Poi però, quando questo è diventato irrisolvibile, i cani si sono rivolti agli umani.
Al contrario, i suini hanno eseguito comportamenti meno orientati all’uomo, ma erano più pervicaci nel tentativo di risolvere il compito, cosa che potrebbe riflettere la loro predisposizione a risolvere i problemi in modo indipendente”.
Testardi e assai poco servili oltre che intelligenti…………..e si fidano poco di noi anche perchè le feste che dedichiamo a loro sono ambigue.