La contaminazione da Listeria è una delle più insidiose, anche se in Italia non ci sono mai stati casi gravi come quello del melone negli Stati Uniti, che ha provocato recentemente una trentina di decessi. Le segnalazioni sono frequenti, a riprova del fatto che il batterio continua a essere presente in molti alimenti in tutto il mondo. Presto però le cose potrebbero cambiare, perché i ricercatori del Rensselaer Polytechnic Institute di Troy (New York) hanno messo a punto un metodo in grado di sfruttare le potenzialità dei nanomateriali (cioè di dimensioni minuscole, dell’ordine del miliardesimo di metro) e le caratteristiche di alcuni enzimi. L’abbinamento di questi elementi sembra garantire l’uccisione rapida della Listeria e, potenzialmente, con piccoli aggiustamenti anche di altri batteri.
Il metodo si basa sull’utilizzo di nanoparticelle di silice (già approvate dalla Food and Drug Administration) cui vengono fatte aderire, tramite una sorta di ponte costituito da una proteina ad alta affinità per il maltosio, molecole di un enzima chiamato Ply500, in grado di distruggere la Listeria. Il Ply500 deriva dai batteriofagi, organismi che in natura riescono a entrare nella cellula batterica, riprodursi e uscire attraverso veri e propri buchi praticati nella parete batterica creati grazie proprio ad enzimi come il Ply500.
Le nanoparticelle ricoperte da Ply500 formano una pellicola (ma anche uno spray o una polvere) che a contatto con una qualunque superficie (in questo caso un alimento) e potenzialmente in tutte le fasi del packaging (non ci sono limiti specifici al suo impiego), uccide le varie specie di Listeria in pochi minuti. Il potere distruttivo è stato confermato su cibi dove erano presenti oltre 100.000 unità di Listeria per millilitro (un quantitativo molto superiore rispetto a quello di norma sufficiente a causare un’intossicazione).
Come sottolineato nello studio pubblicato su una rivista del gruppo di Nature, Scientific Report, il dato forse più interessante è che la metodologia potrebbe essere applicata su qualunque tipo di contaminazione batterica, modificando l’enzima litico legato alle nanosfere che manterebbe la stessa efficacia nell’eliminare i batteri patogeni. Il sistema potrebbe rappresentare una valida alternativa ad altri metodi di decontaminazione basati su sostanze chimiche. Inoltre, al posto delle nanoparticelle di silice si potrebbero usare quelle di amido, commestibili e già approvate negli Stati Uniti per usi alimentari.
Agnese Codignola
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Giornalista scientifica
Interessante. Le nanotecnologie stanno galoppando…ma sarebbe bene evitare enfatizzazioni di studi che hanno a tutt’ora carattere sperimentale.
a) innanzitutto lo studio riguarda un ceppo di Listeria innocua che è un surrogato non patogeno del genere Listeria. La verifica va fatta sulla specie patogena e, soprattutto, su molti ceppi, non uno soltanto!
b) l’attività litica non è detto che si verifichi con ugual efficienza su tutti i ceppi di L. monocytogenes; inoltre, nell’ambito di uno stesso ceppo, l’effetto dovrebbe essere verificato in diverse condizioni fisiologiche del batterio, in quanto i risultati possono modificarsi notevolmente
c) se ho letto bene, su insalata, la riduzione di L. innoqua è di 1 Log ufc, che è veramente poco!!!
d) infatti gli studi di validazione “in situ”, spesso rivelano che le condizioni dell’alimento sono un ostacolo all’espressione delle proprietà (presenza di enzimi degradanti il principio, ad es.)
e) si pensa che una proteina di fusione sia permessa in limenti in Italia?
f) ho effettuato studi sulla bioprotezione della IV gamma, mediante l’impiego di batteri lattici. La prima domanda degli utilizzatori: “è permesso?”.
Seconda domanda: “quanto costa?”….
Dubito fortissimamente che possa diventare un metodo attraente…anche nell’ipotesi che le verifiche (tante!) fossero incoraggianti.
Forse sarebbe meglio usare di più il tempo condizionale nel comunicare le notizie.
Prof. Gianluigi Scolari