Le multinazionali delle bevande zuccherate sono come quelle del tabacco: uno studio condanna il marketing e gli accordi con i governi
Le multinazionali delle bevande zuccherate sono come quelle del tabacco: uno studio condanna il marketing e gli accordi con i governi
Agnese Codignola 26 Febbraio 2013Le multinazionali delle bevande sono come quelle del tabacco. Il paragone shock è stato proposto esplicitamente da Rob Moodie, docente dell’Università di Melbourne, in Australia, e coordinatore di uno studio internazionale pubblicato su Lancet in cui si dimostra come i colossi del settore negli ultimi anni si siano impegnati solo a parole a collaborare con le autorità sanitarie. Gli sforzi per migliorare la dieta di popolazioni, invertendo la tendenza all’aumento di peso e il rischio di sviluppare patologie, sembrano essersi fermati alle promesse. Le aziende hanno agito in direzione contraria a quanto annunciato, trasferendo nei paesi più poveri le stesse politiche commerciali aggressive che hanno portato alla saturazione i mercati dell’Occidente. Cioè comportandosi come hanno fatto per anni – e ancora fanno – le multinazionali del tabacco.
Nello studio, Moodie e i suoi colleghi hanno analizzato diverse linee guida di autorità sanitarie e società scientifiche, svariati contributi dei produttori di bevande agli appositi panel di esperti, e, insieme, molte dichiarazioni di intenti degli stessi che impegnavano le aziende a migliorare volontariamente sia i prodotti sia le politiche di marketing, giungendo a una conclusione drastica: le aziende non devono avere in alcun modo a che fare con l’elaborazione dei consigli alla popolazione. Una volta verificati i dati, infatti, secondo Moodie viene meno la liceità di quell’appello alla collaborazione tra soggetti diversi sostenuto per anni da molti come unico strumento efficace per invertire la tendenza. Al contrario, la richiesta è esplicita: bisogna dichiarare una guerra senza quartiere e senza possibilità di mediazione all’industria delle famigerate “soda”.
Una presa di posizione dunque molto forte, che si basa anche su un dato emerso dalla valutazione: il contributo delle aziende all’elaborazione delle linee guida, quando c’è, non sembra apportare alcun beneficio, e per questo se ne può fare a meno. Non solo: molti documenti aziendali rivelano in realtà il costante tentativo delle industrie del settore di orientare, influenzare e distorcere il convincimento delle autorità sanitarie per farlo giungere su posizioni meno intransigenti di quelle presenti all’inizio dei lavori, attraverso un’opera molto intensa di lobbying, con la costruzione di solidi rapporti personali e il coinvolgimento in situazioni promiscue e affari comuni, in pieno conflitto di interessi.
Ma tutto ciò non basta. Scrive infatti Moodie: “La legislazione e la regolamentazione, e solo quelle, possono modificare i comportamenti delle multinazionali e far sì che gli interlocutori dei consumatori per ciò che riguarda la salute pubblica siano solo le autorità governative e non le aziende. Solo norme stringenti possono modificare i comportamenti anche grazie alla pressione mediatica e d’opinione pubblica che esse, indirettamente, esercitano, come dimostra la storia del tabacco”.
A questo proposito, si è fatto sentire anche il Center for Science in the Public Interest (CSPI), guidando un folto gruppo di associazioni di consumatori ed enti no profit che ha chiesto alla Food and Drug Administration, in una conferenza stampa convocata ad hoc, di intervenire con norme molto severe sul contenuto medio di zuccheri e dolcificanti calorici nelle bevande. L’agenzia si è infatti occupata dell’argomento nel 1982 e nel 1988, e da allora non ha più preso alcun provvedimento; per questo, secondo il CSPI, oggi deve obbligatoriamente affrontare il tema, stabilendo limiti massimi di concentrazione calorica per le bevande (e per gli snack). Non è più accettabile che il contenuto medio di una lattina grande, da 20 once (quasi 600 ml), contenga l’equivalente di 16 cucchiaini di zucchero (il limite massimo di assunzione giornaliera consigliato dall’American Heart Association è di sei cucchiaini per le donne e nove per gli uomini), un quantitativo che nessuno assumerebbe se fosse visibile.
Le aziende, dal canto loro, stanno cercando di proporre sempre più dolcificanti a potere calorico basso o nullo, come ha fatto la Pepsi con la Trop50 dolcificata con la stevia. L’American Beverage Association ricorda che dal 1998 a oggi il numero di calorie medio dei prodotti dei suoi associati è diminuito del 23% e che un’indagine chiamata National Health and Nutrition Examination Survey ha rivelato che nel 2007-2008 gli americani assumevano il 37% di calorie in meno dagli zuccheri rispetto al 2000. Ma questo, in tutta evidenza, non basta.
In definitiva, anche se qualche segnale positivo non manca secondo il CSPI moltissimo resta da fare. E norme cogenti possono dare un contributo fondamentale.
Agnese Codignola
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Giornalista scientifica