Una famiglia, madre con figlia e figlio piccolo, indecisa davanti a uno scaffale del supermercato

latte scaffale supermercato private labelGrandi marchi o “private label”? Questo è il dilemma che potrebbe affliggere il consumatore di domani, costretto a sottomettersi a questo aut-aut, senza più trovare sugli scaffali i marchi minori che tanto contribuiscono alla libertà di scelta.

Rabobank, un’istituzione finanziaria olandese specializzata nel settore agro-industriale, ha appena pubblicato il rapporto di una ricerca – dal titolo “Private label vs. Brands”- in cui si delinea una impressionante crescita dei cosiddetti marchi commerciali, la cui quota di mercato salirà dall’attuale 25% sino al 50% entro il 2025. Ma perché, e quali saranno le implicazioni di questo fenomeno?

Il punto di partenza è la constatazione che il mercato al dettaglio nel settore alimentare è sempre più nelle mani di pochi operatori, e questo sia nei mercati più maturi come l’Europa, sia nei paesi emergenti dove pure la grande distribuzione organizzata avanza senza posa.

Al tempo stesso i consumatori sono sempre più orientati verso l’acquisto di prodotti a marchio del distributore, che vengono presentati come più vantaggiosi rispetto a quelli di marca, al punto da iniziare a competere sui prezzi con le merci vendute negli “hard discount“. Con l’ulteriore vantaggio competitivo di venire offerti in supermercati e centri commerciali la cui l’assortimento è assai più ampio sia rispetto a quello della distribuzione tradizionale, sia rispetto agli “hard discount”. Si aggiunga poi il fatto che i grandi distributori, grazie alla loro straordinaria concentrazione, sono in grado di imporre a quasi tutti gli operatori di diventare fornitori di prodotti  “private-label”, quale condizione per vendere anche i loro articoli sugli scaffali.

Glass jar of sauce in the hands of the buyer. Sauce in the hands of the buyer at the grocery storeSecondo lo studio di Rabobank, questo fenomeno produrrà due conseguenze:

– i produttori dei “must-have brands”, o “A-brands”, vale a dire i “leader” di categoria, manterranno la loro presenza a scaffale poiché i consumatori non sono disposti a rinunciare ai marchi cui sono da tempo affezionati,

– i produttori di “B-brands”, cioé i marchi non dominanti, sono invece destinati a scomparire progressivamente. Si troveranno perciò di fronte alla scelta obbligata tra investire sulla qualità del prodotto e la promozione del marchio, per collocarsi nel segmento di prezzo superiore (“premium”, o “top di gamma”), oppure rinunciare definitivamente alla propria immagine per specializzarsi nella fornitura dei grandi distributori con prodotti che recano il marchio del supermercato.

Di conseguenza i consumatori – che oggi possono scegliere tra i marchi A, B, C … –  dovranno sempre di più valutare se comprare  il prodotto “leader” oppure quello con l’insegna del supemercato. Di fatto, le loro scelte saranno limitate tra l’offerta massificata di ciò che il distributore realizza per loro attraverso sub-fornitori e quella dei marchi e prodotti “premium”.

La prospettiva non è entusiasmante, né per i consumatori che dovranno rinunciare all’ampia scelta di prodotti realizzati dai vari operatori che connotano il nostro tessuto imprenditoriale alimentare, né tantomeno per questi ultimi. I quali dovranno mettere da parte le loro legittime aspettative di fidelizzare i clienti caratterizzando i loro alimenti sotto diversi aspetti (qualità, tradizione, innovazione, etc.), e rassegnarsi alla sub-fornitura.

Ne fa le spese la libera concorrenza, poiché le catene di supermercati sempe più decidono quali prodotti, quali marchi e a quali prezzi, collocare sullo scaffale. Il banco conosce tutte le carte, e decide come posizionarle. Il banco vince, su tutti.

Dario Dongo

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