«Costruita in laboratorio la prima cellula artificiale autoreplicante, capace cioè di riprodursi come le cellule normali». 

L’annuncio dell’Hastings Center, il laboratorio in prima linea nella ricerca sulle questioni etiche della tecnologia, è stato ripreso da tutti i giornali. La scoperta si deve soprattutto al J Craig Venter Group, che fa capo a Craig Venter, il genetista autore della prima mappa del Dna umano. Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo intervento di tre ricercatori del Gruppo Scienza Semplice, Alessandro Giuliani (Istituto superiore di sanità), Ignazio Licata (Institute for Scientific Methodology, Palermo), Carlo Modonesi (Dipartimento Bio-Evo&Funz., Università di Parma), che spiegano cos’è realmente la nuova “vita artificiale” e quanto sono invadenti alcune logiche di marketing trasferite nel  mondo della ricerca.

 

La vita artificiale annunciata  dal gruppo di Craig Venter, e il rumore mediatico che l’hanno accompagnata, offrono un’ottima occasione per ripensare alle tensioni culturali e metodologiche che attraversano la scienza contemporanea e alle loro proiezioni mediatiche. 

Leggendo l’articolo scientifico originale, si scopre che i ricercatori hanno inserito in un batterio un Dna la cui sequenza era stata progettata “copiandola” da quella di un organismo con un patrimonio genetico assai semplice, il micoplasma. Dunque,  non scrivendo ex novo le informazioni genetiche. Già questo aspetto ci dovrebbe indurre a considerare come viene usata l’impegnativa parola “creazione”.

Inoltre, anche se gli elementi iniziali (brevi tratti di Dna) erano stati sintetizzati per via chimica, il “macchinario” per produrre l’intero genoma era comunque naturale, trattandosi di cellule di lievito. In pratica, la “vita artificiale” di cui stiamo parlando è piuttosto una nano macchina biomorfa, già ipotizzata da Von Neumann e  Feynman a partire dagli anni ‘50.

Si tratta dunque di un grande progresso tecnologico, ma non certo di “vita artificiale”, e neanche di un rivoluzionario metodo di sintesi chimica. Cerchiamo dunque di fare chiarezza, così da distinguere tra invenzione, proclami mediatici e eventuali ideologie nascoste.

Il Dna è una macromolecola costituita da una catena di nucleotidi legati fra loro in modo da formare un lunghissimo filamento. Esistono quattro tipi di nucleotidi (chiamati con le lettere A,C,G,T). Perciò un filamento di Dna può essere immaginato come una lunghissima stringa di caratteri (circa 3 miliardi nel caso del genoma umano, di lunghezza diversa in altri organismi). I nucleotidi allineati lungo due filamenti di Dna si riconoscono e si accoppiano fra loro con delle regole precise.

La molecola del Dna è una delle grandi invenzioni della natura, perché è una “banca dati” che consente di memorizzare delle istruzioni di tipo chimico (per esempio, ad alcune triplette di nucleotidi corrisponde un aminoacido che va a costituire il componente di una proteina) che possono essere trasferite da una generazione all’altra in modo relativamente rapido ed economico.

Anche se questo meccanismo di “copiatura e riproduzione” è cruciale per la vita, una molecola non è un essere vivente, in quanto da sola non fa e non produce un bel nulla: non si sviluppa, non muore (piuttosto si degrada) e a ben vedere neanche si duplica, visto che i processi descritti in precedenza necessitano del lavoro di sofisticate macchine chimiche (enzimi, proteine strutturali, complessi sopramolecolari..) per essere realizzati.

Un batterio invece è un essere vivente: ha una membrana che lo separa dall’ambiente esterno fornendogli l’individualità di un sistema biologico che si autoregola, si dà un gran da fare per sopravvivere, si riproduce e alla fine muore. Alcune molecole potranno entrare e uscire liberamente dal sistema, alcune saranno escluse, altre accumulate, altre ancora prodotte o demolite. Il “regista” di ciò è la cellula, in questo caso il batterio preso nella sua interezza. Il Dna si limita a fare le funzioni di un magazzino di informazioni per produrre le proteine.

Dire di aver creato la vita artificiale solo perché si è trasferito un genoma “stilizzato” in un batterio privato del suo genoma è un’affermazione un po’ forte e per certi versi assurda. L’esperimento di Venter, anche se di importanza indiscutibile, consiste nell’aver sostituito una componente (il Dna) della cellula con una nuova, che proviene comunque da un altro sistema vivente.

La composizione del genoma in basi è nota pezzo per pezzo agli sperimentatori, e quindi in via ipotetica è “modificabile” a piacere. L’ingegneria genetica segue queste vie da quarant’anni, solo che fino a oggi si sintetizzavano solo tratti di genoma e non il genoma tutto insieme. Si tratta quindi di un buon avanzamento tecnico, ma che poco ha a che fare con la comprensione globale dei processi viventi.

Sarebbe come dire di aver costruito il “melodramma artificiale” usando solo la partitura, senza bisogno di musicisti e cantanti: provate a immaginare che cosa succederebbe se, alla prima della Scala, sul palco venisse esposto lo spartito del Rigoletto e non succedesse nient’altro.

Considerare il Dna come il motore immobile e unico principio causale della vita è del tutto al di fuori delle evidenze scientifiche, e su questo tutti i ricercatori (e anche chi ha una semplice infarinatura di biologia) sono d’accordo. Come ha ben espresso Dennis Noble: «Dove si trova, ammesso che esista, il programma della vita? La mia tesi è che non vi è alcun programma e che, nei sistemi biologici, non vi è alcun livello di causalità privilegiato». Insomma, inutile cercare il direttore d’orchestra, in questo caso è l’orchestra stessa!

Allora perché si diffondono queste semplificazioni ingenue? La prima spiegazione potrebbe essere economica: dopo le mirabolanti promesse degli anni ‘80, la biotecnologia versa in una crisi profonda. C’è bisogno di illudere gli investitori con l’illusione di controllo totale sul vivente. Ma è una spiegazione molto parziale.

Adam Wilkins, nell’articolo “For the biotechnology industry the penny drops (at last): genes are not autonomous agents but function within networks” (BioEssays, 2007) scrive: «Ma forse, la vera novità è che la notizia che i geni funzionino entro reti di regolazione complessa possa essere considerata come una novità. Come è stato possibile che così tante persone coinvolte nella biotecnologia abbiano trascurato un’idea (quella dell’azione combinata dei geni, ndr) che è un fatto assodato nella biologia dello sviluppo e in molti altri campi ormai da decenni?».

E invece l’idea centralista del genoma continua a sostenere progetti a dir poco discutibili. Nel numero di Nature dello scorso 25 maggio si parla di un megaprogetto da centinaia di milioni di dollari l’anno per trovare «il ruolo di ciascun gene eliminando un gene alla volta da gruppi di topi ed andando a vedere cosa succede». Non solo continuiamo a scordarci che i geni lavorano di concerto, ma anche il normale buon senso: se tolgo una candela la mia autovettura non può funzionare, ma a chi verrebbe in mente di considerare la candela come lo strumento che manda avanti la macchina (e magari di cercare di ricavare dalla struttura della candela le basi del moto dell’automobile)?

Eppure il progetto milionario è stato lanciato dal National Institute of Health (Nih) americano, la più prestigiosa agenzia di ricerca biomedica mondiale. Che, si spera, ai suoi vertici dovrebbe avere delle persone almeno di buon senso. A nostro parere, l‘insistenza sul lancio di progetti imponenti o di imprese mirabolanti è il risultato avvelenato di mitologie convergenti su un imponente progetto di marketing che poco o nulla ha a che fare con la ricerca di base.

a) Il mito della grande impresa che, mobilitando su un unico tema una grande quantità di risorse, indipendentemente dall’obiettivo, genererà ricadute importanti per il semplice effetto di aggregazione di “migliaia di cervelli”. È il tema classico, per esempio, dell’impresa spaziale, dei grandi acceleratori e, naturalmente, della “decodificazione” del genoma. Una  scienza-spettacolo che vuole attirare consenso e finanziamenti, basata sull’idea fuorviante di “innovazione” come  ingenua capacità della tecnologia di espandersi illimitatamente utilizzando come i mattoncini del “lego” le conoscenze già acquisite.

b) Il mito del dominio assoluto della vita, con l’eliminazione del rischio, della malattia, dell’imprevisto. New-age e mitizzazione tecnologica sembrano aver stretto un patto per far balenare  ai consumatori l’idea di cure miracolose e una promessa di immortalità. Mentre nell’ultimo mezzo secolo la ricerca di base accumulava un numero crescente di indizi a favore della dimensione multifattoriale (e quindi probabilistica) di gran parte di ciò che possiamo osservare negli esseri viventi, la ricerca applicata si concentrava sulla manipolazione del Dna con la pretesa che ogni processo biologico fosse per definizione stabilito dai geni in modo diretto, lineare e irreversibile.

L’idea dell’organismo «macchina» si sposa con quella di poter controllare e addirittura progettare ogni espressione della vita, offrendo all’opinione pubblica l’immagine del corpo umano come di un oggetto manipolabile: per esempio per predire malattie, per “biologizzare” ogni aspetto dell’esperienza umana e persino per evitare la morte.

Questo ha influito in modo pericoloso sulle aspettative che il pubblico nutre nei confronti della scienza. Anche a causa dell’uso spesso spietato che giornali e tv fanno dei proclami scientifici: le promesse di un’imminente cura definitiva dei tumori sono l’espressione più atroce e oscurantista della strumentalizzazione della scienza del nostro tempo. Ogni ricercatore dovrebbe sentirsi ferito nel profondo ogni volta che il suo ruolo sociale, il suo mestiere e la sua deontologia professionale vengono così mistificati. 

I risultati recenti della biologia molecolare – in primis il Progetto Genoma Umano (al quale Venter ha dato un contributo decisivo) – hanno definitivamente mostrato che il Dna è soltanto “uno” dei fattori che determinano il fenotipo degli organismi.

In fondo i geni sono infinitamente meno numerosi delle proteine: il che dovrebbe bastare a far comprendere che la macchina molecolare può modificare o modulare l’espressione genica a seconda di ciò che la cellula “decide” di fare in relazione agli stimoli ambientali. Senza contare che esistono forme di eredità biologica (eredità epigenetiche, così un carattere indotto nei genitori, per esempio dallo stress, potrebbe essere trasmesso alla prole) alternative a quella strettamente genetica.

Le proprietà (normali e patologiche) degli esseri viventi, comprese quelle degli esseri umani, non sono specificate dal Dna, ma sono il prodotto interazioni continue tra l’ambiente interno all’organismo (di cui il Dna è una parte importantissima) e il suo ambiente esterno.

Quindi, anche conoscendo l’intera sequenza del patrimonio genetico di un individuo, nessuna teoria o legge scientifica ci permette di prevedere quali saranno le sue  proprietà vitali, ovvero il suo fenotipo. Ogni illusione di controllare gli esseri viventi, ma anche più semplicemente i sistemi biologici, è puramente velleitaria. Paradossalmente, nell’epoca dell’individualismo più estremo, la complessità dell’umano non è contemplata.

Alessandro Giuliani (Istituto Superiore di Sanità), Ignazio Licata (Inst. For Scient. Methodology, Palermo), Carlo Modonesi (Dip. Bio-Evo&Funz., Univ. Parma) – Gruppo Scienza Semplice