Kiwi interi e tagliati su un tavolo verde

Migliaia di italiani che ogni giorno mangiano kiwi neozelandesi, forse si domanderanno come fanno ad arrivare dopo un viaggio di 18.000 km, con un aspetto e un sapore ancora ottimi. La riposta si trova nell’articolo che ci ha inviato il nostro corrispondente Alessandro Tarentini.

Forse non tutti sanno che l’Italia, con le sue 410 tonnellate annue, è il primo produttore mondiale di kiwi. Ma, nonostante abbia questo primato, l’importazione di questi frutti è pari quasi al 50% dei nostri consumi. Questo paradosso commerciale è dovuto a molteplici fattori tra cui l’aumento della richiesta di frutti fuori stagione e la crescente efficienza e diffusione di tecniche che permettono il trasporto di derrate alimentari tra i vari continenti.

In tal modo le produzioni della Nuova Zelanda e dell’America Latina, in particolare il Cile, sono oramai entrate a far parte del paniere quotidiano del consumatore italiano. Il kiwi essendo un frutto di origine orientale, venne definito agli inizi del ‘900 come “uva spina cinese”. Il governo neozelandese, durante gli anni della Guerra Fredda, era riuscito a promuoverne ed ampliarne la produzione a livello nazionale, ed impose, per questioni di marketing, un nome di origine Maori riuscendo in tal modo ad evitare una censura da parte del mercato statunitense. Oggigiorno la maggior parte dei kiwi provenienti dalla Nuova Zelanda sono distribuiti da un’unica azienda, la Zespri Group, che ha il compito di commercializzare la produzione di circa 2.700 coltivatori detenendo di fatto il record di maggior esportatore mondiale.

Le maggiori problematiche che si riscontrano durante il trasporto ed aumentare la vita commerciale dei frutti sono dovute per lo più allo sviluppo di eventuali muffe presenti sulla buccia durante la raccolta. In passato si privilegiava l’utilizzo di agrofarmaci ma alcuni studi hanno dimostrato che, nonostante la spazzolatura del frutto o varie metodiche di lavaggio con acqua o soluzioni saline, non si riusciva ad eliminate totalmente la sostanza chimica. Si è preferito quindi spostare l’attenzione della ricerca scientifica sulle fasi post-raccolta cercando di sviluppare metodiche sostenibili per l’ambiente ma allo stesso tempo economicamente vantaggiose per l’azienda. La conseguenza è stata una riduzione dell’impiego di agrofarmaci nei campi, e la scelta al contempo dell’utilizzo di container refrigerati, anziché la stiva di una nave, per ridurre le varie fasi di movimentazione.

holding fresh kiwi fruitLa refrigerazione non è immune da problematiche, perché se non si effettuata in maniera adeguata può comunque permettere lo sviluppo di tipi di muffe resistenti alle basse temperature. Si è diffusa quindi la pratica del “curing” che consiste in una sorta pre-refrigerazione che può variare dalle 48 alle 72 ore. Dopo di che i kiwi vengono refrigerati fino a raggiungere i 0° gradi C al cuore. Secondo i ricercatori questa tecnica favorisce alcune reazioni biochimiche all’interno del frutto che riescono ad inibire lo sviluppo di microrganismi durante la refrigerazione. I meccanismi del fenomeno sono però ancora tutti da scoprire e la tecnica deve essere ancora perfezionata.

Un altro aspetto fondamentale è la rimozione continua dell’etilene, un fitormone sintetizzato dal frutto e che ne provoca la maturazione. Per risolvere questo problema si usano assorbitori di etilene nelle celle oppure si effettua un ciclico ricambio completo d’aria, per evitare una maturazione anticipata durante la conservazione. Se la rimozione di questo gas viene effettuata in maniera ottimale la shelf-life del frutto si può estendere fino a 6 mesi.

Non bisogna meravigliarsi di questi numeri. In Italia lo stesso metodo è impiegato per le mele che vengono stoccate in magazzino in attesa della vendita programmata anche dopo diversi mesi. Un’altra tecnica, molto costosa, è l’impiego graduale in dell’atmosfera modificata. Bisogna stare però attenti quando si utilizza perché il kiwi può sviluppare una fitopatologia denominata “Hard Core” che provoca l’indurimento eccessivo della columella (la parte centrale bianca del frutto) dovuto all’eccessiva presenza di anidride carbonica nell’aria.

Le aziende produttrici hanno inoltre svilluppato delle nuove cultivar che sono più resistenti alle muffe come ad esempio il “kiwi gold” della Zespri Group, destinato in prevalenza alle economie asiatiche in espansione per il suo alto valore commerciale, e la “ENZARed”, della Turner and Growers, una nuova varietà dalle sfumature rosse la cui ridotta shelf-life ne limita però il potenziale commerciale.

La prossima sfida per la ricerca scientifica sarà di comprendere appieno i parametri responsabili dei cambiamenti durante la conservazione del frutto per poter garantire al mercato una continuativa presenza di kiwi di qualità.

© Riproduzione riservata Foto: AdobeStock, Fotolia

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Claudia
Claudia
3 Ottobre 2012 12:52

Io compro da sempre solo kiwi della mia regione (tra le prime in Italia per produzione), il Lazio.