Se n’è parlato il 21 novembre a Mi Manda Rai Tre e se ne parla sempre più spesso. Peccato che di solito i toni siano quelli di uno scontro fra fazioni avverse: ‘pro’ o ‘contro’ il Nutri-Score. Diverse voci istituzionali italiane si sono schierate contro, recentemente anche il ministero della Salute, e l’Agcm ha aperto alcune istruttorie. E la motivazione più spesso tirata in ballo è che questa etichetta andrebbe a danneggiare l’immagine di eccellenze italiane come i grandi salumi e il Parmigiano Reggiano. A essere colpiti non sarebbero solo l’immagine, e le importanti entrate, soprattutto provenienti dall’export, ma una serie di culture e tradizioni che “devono essere difese”.
Cosa dicono le voci contrarie a questo sistema di etichettatura? Essenzialmente due cose: il Nutri-Score, se applicato, andrebbe a influenzare gli acquisti degli italiani, portandoli a ridurre il consumo di alimenti che sono vere e proprie eccellenze, come salumi e formaggi della tradizione; l’effetto sulla salute, per esempio per prevenire l’obesità, sarebbe trascurabile, perché la salute non dipende dal consumo di specifici alimenti ma invece dal complesso dell’alimentazione e dallo stile di vita.
Ora, ridurre il consumo di salumi sarebbe forse dannoso solo per chi li produce, non certo per i consumatori, dato che in Italia il consumo apparente (dato da produzione + import – export) di carne suina fresca e salumi è stato di quasi 27 chili nel 2020 (anno in cui è diminuito a causa della pandemia). Le Linee guida per una sana alimentazione suggeriscono di consumare una porzione da 100 g di carne rossa a settimana, mentre i salumi non sono nemmeno previsti nella tabella dei “suggerimenti di consumo”, ma si legge così: “Un consumo eccessivo o troppo frequente di carni conservate è associato a un aumento di rischio di tumore, in particolare del colon-retto, di diabete di tipo 2 e di malattie cardiovascolari. È bene dunque consumarne quantità controllate, tenendo conto che, alla luce delle conoscenze attuali, non ci sono evidenze che consentano di definirne una quantità di consumo sicuramente esente da rischi.”
Nessuno vuole eliminare i salumi dalla nostra vita, soprattutto quando si tratta di eccellenze gastronomiche, perché mangiare è un piacere, ma non c’è nessun motivo legato alla salute per difenderne il consumo. Insomma, la valutazione nutrizionale e quella gastronomico-qualitativa si muovono su piani diversi. Nessuno chiede di rinunciare al panino con la coppa, deve essere chiaro però, che va consumato saltuariamente, perché non è un alimento bilanciato. La comparsa di bollini rossi sulle vaschette dei salumi potrebbe darci la giusta spinta per ripensare il modo in cui consumiamo questi prodotti: non più un uso quotidiano di prodotti acquistati in offerta a 10 € al chilo, ma piuttosto prodotti più costosi e controllati lungo tutta filiera, tenendo conto anche, finalmente, del benessere dei suini.
Per quanto riguarda la seconda obiezione, è vero che un’etichetta a semaforo è riduttiva rispetto alla complessità degli aspetti che definiscono un’alimentazione equilibrata, ed è vero che è scorretto parlare di alimenti ‘buoni’ o ‘cattivi’, ma la Commissione europea ha riconosciuto la necessità di un sistema semplice, che fornisca un’informazione facilmente leggibile. Il colore attribuito dal Nutri-Score si basa su una valutazione che considera aspetti ‘positivi’, come la presenza di verdure fra gli ingredienti, la ricchezza di fibre e il contenuto proteico, e ‘negativi’ come l’apporto calorico, la ricchezza di grassi totali, di grassi saturi, di zucchero e di sale.Il giudizio non si deve leggere come una classificazione in alimenti ‘buoni’ oppure ‘cattivi’, bensì riferito alla frequenza di consumo , quindi di alimenti da consumare più o meno frequentemente.
Dato che tiene conto di diversi aspetti riconosciuti dalla comunità scientifica – come il ruolo negativo dei grassi saturi e del sale – pare uno strumento utile per distinguere il valore nutrizionale degli alimenti industriali. Uno strumento da utilizzare per confrontare alimenti simili, per esempio diversi tipi di yogurt o di sostituti del pane. Piuttosto che difendere il ‘valore culturale’ di alcuni prodotti italiani, sarebbe utile concentrarsi sugli aspetti migliorabili di questo sistema, che non mancano.
Innanzitutto il Nutri-Score non considera gli additivi, quindi un alimento ricco di additivi non riceve alcuna penalizzazione. Questo si può giustificare pensando che tutti gli additivi utilizzati dall’industria sono considerati sicuri dall’Efsa, secondo le dosi consigliate, però sarebbe utile integrare nella valutazione la presenza e la tipologia di additivi utilizzati.
La Coca-Cola, per esempio riceve una E perché l’unico nutriente che contiene è zucchero. La versione Zero, invece, dolcificata con aspartame e acesulfame K, riceve una B, perché non ne contiene. Dato che non mancano dubbi sugli effetti a lungo termine dei dolcificanti, la presenza di queste sostanze si dovrebbe valutare come aspetto negativo, come accade per esempio con l’app Yuka che assegna una valutazione ‘scarso’ alla Coca-Cola (0 punti) e mediocre alla Coca Zero (39/100).
L’altro aspetto controverso è dato dal fatto che questa valutazione è riferita alla quantità standard di 100 g (o 100 ml) e ciò ne riduce l’efficacia, perché in questo modo un condimento, come per esempio il pesto, può essere penalizzato, risultando troppo grasso, ma quasi nessuno utilizza 100 g di pesto per condire la pasta. D’altra parte se una pizza surgelata pesa 300 g ma la valutazione è riferita a 100 g, non ha molto senso perché in questo caso la porzione è data da una pizza.
La catena di fast food McDonald’s, in Francia, ha adottato il Nutri-Score, in questo modo però non è molto significativo, perché, se ci riferiamo ai 100 g, le patatine fritte ricevono la stessa valutazione (B) sia che si tratti della confezione piccola che della più grande, e lo stesso accade per i panini: non ha senso valutare gli aspetti nutrizionali di un panino considerando i 100 g ma piuttosto bisogna tener conto delle sue effettive dimensioni. Sarebbe quindi più efficace considerare le porzioni, utilizzando le quantità “ufficiali” indicate dalle Linee guida per una sana alimentazione, oppure, per prodotti porzionati, la quantità effettiva commercializzata.
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Giornalista pubblicista, laureata in Scienze biologiche e in Scienze naturali. Dopo la laurea, ha collaborato per alcuni anni con l’Università di Bologna e con il CNR, per ricerche nell’ambito dell’ecologia marina. Dal 1990 al 2017 si è occupata della stesura di testi parascolastici di argomento chimico-biologico per Alpha Test. Ha collaborato per diversi anni con il Corriere della Sera. Dal 2016 collabora con Il Fatto Alimentare. Da sempre interessata ai temi legati ad ambiente e sostenibilità, da alcuni anni si occupa in particolare di alimentazione: dalle etichette alle filiere produttive, agli aspetti nutrizionali.
Complimenti per la precisione e la indipendenza di questo articolo, sul quale mi trovo sostanzialmente d’accordo: non criminalizzare il punteggio di per sé ma discuterne per giungere a una definizione completa ed equilibrata, che tenga conto dei diversi aspetti (componenti, quantità di consumo tipiche e magari costi energetici e ambientali). Purtroppo è davvero difficile fare una valutazione che sia semplice ma complessa e che metta tutti d’accordo ma favorisca alcuni.
Buon lavoro
Marcello Mundula, Agronomo, Insegnante
La mia opinione negativa (e di tantissimi altri) sull’etichetta a semaforo è scritta perfettamente in questo passaggio dell’articolo:
“L’altro aspetto controverso è dato dal fatto che questa valutazione è riferita alla quantità standard di 100 g (o 100 ml) e ciò ne riduce l’efficacia, perché in questo modo un condimento, come per esempio il pesto, può essere penalizzato, risultando troppo grasso, ma quasi nessuno utilizza 100 g di pesto per condire la pasta. D’altra parte se una pizza surgelata pesa 300 g ma la valutazione è riferita a 100 g, non ha molto senso perché in questo caso la porzione è data da una pizza.”
Nient’altro da aggiungere…
Gentile Roberto, anziché rinunciare a un sistema di valutazione di facile lettura come il Nutri-Score sarebbe opportuno correggerlo. Sono d’accordo che sarebbe preferibile utilizzare la valutazione per porzione. La quantità corrispondente a una porzione dovrebbe però essere stabilità da enti scientifici ufficiali e non lasciata alla discrezione dei produttori.
Gentile Valeria, questa sua è una proposta sensata, ma è la prima volta che la sento…
Non mi sembra sia all’orizzonte una modifica del genere.
Se proprio vogliamo inserire le etichette a semaforo, che non condivido, allora reputo decisamente più azzeccata l’etichetta nutri-form, è una nuova etichetta che ho già visto nei punti di vendita, etichetta che si basa sulla porzione di quel prodotto e non sui 100 gr del prodotto stesso. Non credo che una persona ceni con 100gr di parmigiano reggiano o pecorino ma, trovo più indicata l’etichettatura per la porzione. Esempio, voglio mangiare una merendina, riporto nella confezione il nutri- form della porzione ovvero una merendina, poi è chiaro che se voglio mangiare due trarrò le mie conclusioni, voglio bere una bevanda gassata etichetto la porzione che sarebbe i famosi 200cc, ovvero un bicchiere. Tuttavia reputo l’etichettatura, la qualsiasi essa sia solo una guerra commerciale, tanto per indirizzare il consumatore.
Gentilissimo, può inviare a ilfattoalimentare@ilfattoalimentare.it delle foto di prodotti con l’etichetta NutrInform? Noi non siamo ancora riusciti a trovarne.
Certo Giulia, appena possibile invierò foto come da sua gentile richiesta, ma basta andare in un qualunque supermercato e là si trova facilmente. Io l’ho notata in qualche merendina e nelle bevande a base di the’.
Il mio parere negativo sull’etichetta “semaforo” pomposamente definita NutriScore l’ho già espresso in più occasioni e non posso che confermarlo, un argomento per tutti: se piace alle multinazionali al punto di fare lobby per indurre l’Europa ad adottarlo è evidente che ne hanno il loro bel tornaconto, o perché già premia i loro prodotti ultratrasformati a scapito di quelli più semplici e genuini, o hanno trovato da tempo il modo di volgerlo in loro favore e ottenere un bel semaforino verde per qualunque intruglio decidano di produrre.
Il consumatore in genere non ha tempo/voglia di leggere le etichette scritte in piccolo dietro il barattolo e si fida dello strillo pubblicitario sulla foto di copertina (manipolata, non realistica, ma invitante) del prodotto, e vedendo in bella evidenza il bollo verde del semaforino si riterrà ancor più esentato dal leggere gli “ingredienti da professoroni”, perché “se gli danno il semaforo verde allora sono sicuramente buoni e sani”.
Invece sui prodotti più genuini e semplici, che non possono ricorrere al trucco delle dozzine di ingredienti come stabilizzanti, addensanti, emulsionanti, coloranti, conservanti, che “non fanno semaforo”, comparirà un penalizzante disco giallo o rosso perché sono colpevoli di avere pochi ingredienti ben identificabili, ad esempio, zucchero nelle marmellate, o addirittura il grasso naturale nel burro o nell’olio, magari artigianali a filiera corta e tracciabilità totale.
L’esempio della cocacola zero “verde” è eclatante, ma lo stesso succede per qualsiasi prodotto, dai gelati ai burger, insomma dovunque le multinazionali abbiano il loro interesse, e il riferimento a 100 grammi è anch’esso fuorviante perché come spiegato nell’articolo su un prodotto di cui consumo abitualmente solo una piccola porzione il disco rosso significa poco, e ancora meno il verde su quello che consumo in quantità.
Mi dispiace doverla contraddire, ma lei sta dicendo delle cose che hanno poco senso, intanto il nutri score è stato ideato da un pool di esperti indipendenti e professori universitari, bisognerebbe uscire da questo schema mentale di vedere sempre complotti lobby e macchinazioni ovunque. E così pensare che le cose siano o bianche o nere, se una persona compra una confettura anche artigianale ma fatto con 500g di zucchero e 500g di frutta, sarà la più buona del mondo è fatta con 2 soli ingredienti, ma nutrizionalme è sbilanciata. Il nutri score valuta i cibi in quanto nutrienti e non in quanto alimenti, in nutrizione i due termini non sono sinonimi. Invece di focalizzarsi sono su 2 tre concetti (io sento parlare solo di olio di oliva contro bibite 0 ) pensiamo invece a quali altri alimenti che molti considerano “salutari” come yogurt o cereali avrebbero un bel semaforo rosso.
Che poi anche il nutri score sia uno strumento da migliorare sono d’accordo, o perlomeno bisognerebbe informare di più sulle sue caratteristiche invece nel ricadere nel solito si/no.
Qualità organolettica e qualità nutrizionale sono due cose diverse.
Dott. Silvia B. Biologia Nutrizionista
@Silvia
La sua marmellata col 50% di zucchero è nutrizionalmente sbilanciata SOLO SE CONSUMATA COME UNICO ALIMENTO, ma consumata in quantità moderata spalmata sul pane in una colazione che comprenda latte, yougurt, frutta, rientra perfettamente in una dieta equilibrata
“il nutri score è stato ideato da un pool di esperti indipendenti e professori universitari”
Perché, io ho forse affermato che il nutriscore è stato creato da @farfallina54 e da su cugggino tubista per incarico dei poteri forti?
Ho semplicemente fatto rilevare che, COSI’ COM’E’ STATO SDOGANATO E APPLICATO, il nutriscore è stato adottato immediatamente e sostenuto con grande entusiasmo lobbistico dalle multinazionali dell’alimentazione perché si era era perfetto per ottenere un semaforo verde per i loro alimenti che da tempo erano in odore di nocività per la salute nonostante siano organoletticamenti pari o superiori alle preparazioni tradizionali, cito da un’altra discussione: “gruppo 4, alimenti ultra-trasformati, realizzati con additivi, ingredienti e tecniche non utilizzati abitualmente in cucina”.
E questo non riguarda solo passaggi fisici fisicamente impossibili da attuare con attrezzature casalinghe (uno per tutti, l’omogeneizzazione, di per sé innocua ma irrealizzabile a casa) ma additivi, condizionanti, stabilizzanti, emulsionanti, conservanti, di fatto irreperibili per un privato, per non parlare delle decine di “ausiliari tecnologici” utilizzati nel processo di produzione e non indicati in etichetta perché una volta svolto il loro ruolo non più rintraciabili.
E non facciamo della facile ironia liquidando tutto come “ghombloddo”, sui cibi industriali ultratrasformati (normali e “vegani”, non se ne salva nessuno) proprio su questa testata era stato linkato un filmato di oltre un’ora (prolisso e ripetitivo, ma interessante e dettagliato) che documentava il “greenwashing” attuato dall’industria per ottenere certificazioni salutistiche di pura facciata, ma il link https://www.arte.tv/it/videos/091150-000-A/l-invasione-del-cibo-spazzatura/ dà errore 404 di non trovato perché il documentario è stato rimosso ed ora è a pagamento su https://boutique.arte.tv/detail/la-grande-malbouffe.