Mentre in Europa (a partire dalla Spagna) si cerca di boicottare la sponsorizzazione sui social del cibo spazzatura da parte degli influencer, negli Stati Uniti Instagram amplia a tutti gli utenti la possibilità di taggare i prodotti commerciali. Quali effetti sui consumi alimentari degli utenti più assidui? Abbiamo chiesto il parere di Vincenzo Russo, docente di Psicologia dei consumi e neuromarketing e direttore, tra gli altri, del Master in Food and wine communications presso l’Università IULM di Milano, nonché membro del Istituto di autodisciplina pubblicitaria (Iap).
Non più solo aziende, creator o testimonial scelti dai diversi marchi che operano nell’e-commerce: d’ora in poi – almeno negli Stati Uniti – tutti gli utenti potranno ambire al titolo di ‘influencer’ e fare pubblicità a vari prodotti commerciali in post, stories e reels pubblicati su Instagram. Oltre oceano, infatti, la piattaforma di condivisione immagini ha aggiornato alcune funzioni e aperto a tutti i profili registrati un’opzione attiva fin dal 2016, ma fino ad ora riservata a pochi diretti interessati: quella di taggare svariati beni di consumo (dai cosmetici ai vestiti, fino agli oggetti di design e – ovviamente – al cibo) inserendo dei ‘pulsanti’ direttamente nei contenuti pubblicati sulla propria bacheca.
Ogni tag permetterà ad altri utenti di cliccare sulla menzione del prodotto per essere reindirizzati sulla pagina di acquisto gestita dal marchio in questione. L’obiettivo di Instagram e di Meta è attirare sempre più pubblico e battere la concorrenza degli altri social network, primo fra tutti TikTok, “ma – secondo l’esperto – questa novità potrebbe avere un effetto rivoluzionario sulle regole del marketing online, cambiando profondamente le dinamiche con cui la ‘pubblicità sul web’ riesce a influenzare i comportamenti dei consumatori utenti di internet”. Prime fra tutte le abitudini alimentari.
Secondo una ricerca condotta di recente dalla piattaforma Buzzoole Discovery, specializzata in tecnologie e servizi per l’influencer marketing, il più significativo tra i nuovi trend lanciati negli ultimi anni dal settore del cibo è l’aumento considerevole del cosiddetto ‘food porn’, ovvero la pratica di fotografare il cibo e condividerne le immagini sui social. Analizzando un database di 250 milioni di contenuti prodotti da oltre 2 milioni di profili monitorati a livello globale su cinque diversi canali social differenti (Instagram, Facebook, YouTube, Twitter e TikTok) è emerso che solo nel 2020 i post a tema cibo sono aumentati del 57,4%, per un totale di 1,59 milioni di contenuti.
Parallelamente alla crescita di questa tendenza si sono registrati un aumento del numero degli utenti che seguono contenuti e profili nell’ambito del cibo (un’audience per il 66,70% femminile e giovane, con un’età che nel 56,53% dei casi è compresa tra i 18 e i 34 anni) e un ampliamento della platea dei cosiddetti food influencer, costituita non più solo da professionisti del settore (come chef e pasticceri) ma anche dalle cosiddette social star capaci di creare sinergie con settori che esulano dal mondo della cucina (dai macro-influencer con almeno 100mila follower fino alle celebrità che ne hanno più di 1 milione) e soprattutto da un numero crescente di utenti con un piccolo seguito e di micro-creator (con 10-30mila follower).
Ciò significa che chiunque, dai ‘foodies’ appassionati del mangiar bene, ai nutrizionisti, dai cultori del fitness fino a chi cerca di promuovere un consumo etico del cibo, può improvvisarsi food influencer e contribuire a orientare le scelte del proprio pubblico online. Come spiega Russo, “internet si caratterizza proprio per la sua natura democratica: chiunque riesca ad acquisire una certa visibilità e a veicolare un messaggio preciso e immediato – indipendentemente dal tipo di contenuto – conquista il diritto di guidare un nuovo trend tra chi è disposto a seguirlo. E viceversa, l’utente di internet può scegliere liberamente chi adottare come modello, imitandone i comportamenti, dentro ma soprattutto fuori dal web”.
Ad oggi, il canale maggiormente utilizzato per condividere contenuti a tema cibo è proprio Instagram (75,64%), seguito da Facebook, Twitter e TikTok. Pertanto, coerentemente con i risultati di uno studio condotto dai ricercatori del dipartimento di psicologia della Aston University (Birmingham), pubblicati nel 2020 sulla rivista scientifica Appetite, questa piattaforma sarebbe quella maggiormente in grado di influenzare le abitudini alimentari degli utenti del web (soprattutto dei più giovani), incoraggiandoli a imitare l’esempio dei loro contatti virtuali, trasformando determinate scelte in qualcosa di percepito come inclusivo e trendy.
La scelta di ‘liberalizzare i tag’ potrebbe quindi trasformare Instagram in un oracolo del food marketing, in grado di fruttare al meglio due istanze complementari degli utenti del web: da un lato quella di acquisire visibilità, dall’altro quella di seguire le mode dettate dai personaggi. “Nel mezzo si collocano le aziende dei prodotti taggati che, semplicemente lasciando che le dinamiche del web facciano il loro corso, possono avvantaggiarsi enormemente del bisogno di ‘sentirsi parte di una comunità’ e dell’istinto di emulazione che governa il mondo dei social, ma anche della rapidità (impulsività?) che caratterizza gli acquisti online”. Il risultato è un marketing più economico ed efficace nell’intento di raggiungere in modo mirato specifici segmenti di pubblico, “in particolare tra le fasce più giovani che – spiega l’esperto – sono quelle sempre più inclini a una fruizione di contenuti basata sull’immediatezza dell’immagine”. Una modalità comunicativa a cui il cibo e tutto ciò che gli ruota attorno si presta perfettamente.
Sebbene per il momento non sia prevista alcuna percentuale da riconoscere agli utenti per gli acquisti effettuati tramite i tag dei prodotti nei loro post, non è escluso che in futuro si realizzi un programma di affiliazione in cui i creator più seguiti potranno guadagnare una commissione per le menzioni presenti nei loro post. “Questo renderà ancora più necessario responsabilizzare gli influencer (più o meno noti) rispetto al loro ruolo di guida delle abitudini di acquisto e consumo – alimentare e non solo – di altri utenti del web, e sensibilizzarli all’importanza di veicolare messaggi legati a un’alimentazione sana, per evitare che la ‘fame di like e condivisioni’ li spinga a sponsorizzare qualsiasi tipo di prodotto, per quanto poco salutare”.
Dal punto di vista etico, la decisione di liberalizzare i tag, permettendo a chiunque di sponsorizzare determinati prodotti legati a specifici comportamenti (dentro e fuori dalla cucina) renderà più difficile definire in modo univoco la figura degli influencer, controllarne l’attività, stabilirne le responsabilità rispetto alle abitudini incoraggiate nei follower ed eventualmente adottare le misure necessarie per mettere al bando i messaggi diseducativi. “Insomma –prosegue Russo –, in controtendenza rispetto all’impegno di vigilanza recentemente assunto da Spagna e altre nazioni europee per quanto riguarda proprio i contenuti online legati al food, l’iniziativa di Instagram potrebbe contribuire a fare delle piattaforme social il terreno di un ‘marketing senza frontiere’ difficile da controllare”.
Un problema ulteriore riguarda gli aspetti legali connessi all’attività degli ‘influencer improvvisati’; “in un’epoca in cui tutto passa attraverso Internet e i confini della comunicazione come professione si fanno sempre più sfumati, coloro che condividono contenuti sul web dovrebbero acquisire alcune nozioni fondamentali rispetto all’esistenza di una normativa sulla comunicazione di prodotto che non può essere ignorata. In caso contrario si potrebbero scatenare controversie sia con l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria, sia con le case produttrici dei beni citati o taggati”.
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