Qual è il reale impatto ambientale degli alimenti che portiamo in tavola? Come si calcola? È possibile orientare le proprie scelte in modo da abbassarlo? A queste e altre domande su un termine sempre più familiare, ma non necessariamente sempre compreso a fondo, l’Istituto per l’energia e la ricerca ambientale di Heidelberg, in Germania, risponde con un dettagliato studio che analizza alcuni degli alimenti più diffusi nella dieta tedesca.

Di solito – premettono i ricercatori – si assume come indicatore la quantità di CO2 emessa in seguito a una certa pratica. Ma su questo i pareri non sono unanimi, perché i valori internazionali relativi agli alimenti, quali quelli del World Food LCA Database, del 2015, e quelli del Klimatarier (un altro archivio internazionale, del 2016) non sono sempre concordi. Inoltre, ricordano, non c’è solo la CO2: per avere un quadro più aderente alla realtà è necessario tenere presente anche il consumo di risorse naturali quali l’acqua e i fosfati, e il consumo di energia. Per tali motivi il lavoro è stato suddiviso in tre filoni principali:

Il primo è incentrato su aspetti non sempre considerati quali l’imballaggio, il trasporto e così via. L’obiettivo è far capire ai lettori che l’impronta di carbonio dipende anche dal tipo di produzione agricola (convenzionale o biologica), dall’ambito considerato (per esempio, il cibo alla cassa del supermercato o quello sul piatto), dal tipo di imballaggio e da altri fattori. Per avere valori più completi e realistici sono quindi stati analizzati, per 200 alimenti, i seguenti aspetti:

· Tipo di agricoltura (convenzionale o biologica)
· Produzione media o stagionale/regionale
· Produzione nazionale o di importazione tramite camion, nave o aereo
· Tipo di imballaggio
· Prodotti freschi o congelati.

La seconda parte affronta le impronte diverse da quella di CO2 quali lo sfruttamento delle rocce fosfatiche, del suolo e dell’acqua.

La terza parte fornisce le impronte di CO2 per piatti selezionati e preparati, per far capire quanto grande sia l’influenza del processo di preparazione. Inoltre mostra quanto cambiare le ricette possa modificare le impronte (per esempio, usando la soia al posto della carne, o la pasta al posto del riso). I quasi 200 prodotti, con diverse condizioni di coltivazione, confezionamento, importazione e così via, sono stati suddivisi nei seguenti gruppi:

· Frutta e verdura
· Prodotti lattiero-caseari, uova e sostituti del latte
· Carne e fonti proteiche alternative
· Prodotti ricchi di amido, olio o zucchero
· Bevande.

Applicando una serie di parametri, i ricercatori tedeschi hanno stilato specifiche tabelle che contengono, tra gli altri, i kg di CO2 equivalenti per kg di alimenti. Così, le mele ne hanno in media 0,2, ma se arrivano dalla Nuova Zelanda il valore sale a 0,8, mentre i fagioli in scatola raggiungono 1,3, contro lo 0,8 di quelli freschi.

latticini latte formaggi burro yogurt impatto ambientale
Il burro è uno degli alimenti peggiori per impatto ambientale

In generale, la frutta e la verdura con l’impatto di CO2 più alto sono sempre quelle in scatola o comunque conservate: nel caso delle lenticchie, anche quelle secche hanno un indice elevato (1,7), e i peggiori sono i funghi in scatola, con 2,4. Questi valori cambiano se si considerano i mezzi di trasporto: per esempio, l’ananas trasportato con l’aereo e inscatolato arriva a 15,1. Inoltre, se raffrontati con quelli degli alimenti animali, risultano molto minori. Il burro, per esempio, che è uno degli alimenti peggiori, ha un’impronta di CO2 di 11,5, e i formaggi attorno a 7, mentre la panna è a 5,3 e le uova a 3. Il latte è più basso, si aggira attorno a 1, a seconda del tipo, mentre lo yogurt è leggermente più elevato. Com’è ovvio, la carne è la peggiore di tutte: un chilo di manzo è in media associato a 13,6, kg di CO2 e se è biologico addirittura a 21,7 kg, il pollo oscilla tra 3 e 5 kg, il pesce attorno a 5 se di acquacoltura, 3 se selvatico, ma se è congelato arriva a 10 kg (valore che sale nel caso di crostacei, arrivando a superare 12).

I valori tornano poi bassi quando si analizzano altri prodotti di diverso tipo come il pane: in questo caso si rimane spesso al di sotto di 1, ma il cioccolato arriva a 4, e l’olio di oliva supera i 3, come del resto il caffè, che arriva a 5,6 kg di CO2. Molto interessanti poi anche le tabelle con le altre impronte, dalle quali emergono le enormi differenze che si verificano per il consumo di acqua, o per la necessità di energia e fosfati, con alcuni dati sorprendenti. Lo studio può in definitiva rappresentare una valida guida per chi desidera conoscere meglio l’impronta globale associata a ciò che mangia, e cercare di abbassarla orientando le proprie scelte sui prodotti che “consumano” ed “emettono” di meno.

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Giovanni Gozzi
Giovanni Gozzi
14 Gennaio 2021 15:27

Cito dall’articolo:
“un chilo di manzo è in media associato a 13,6, kg di CO2 e se è biologico addirittura a 21,7 kg”
quindi non mangiate carne biologica?
Moderate, moderate.

gianni
gianni
16 Gennaio 2021 17:15

L’occhio clinico del signor Gozzi ha estratto prontamente una delle perle dello studio, la classe non è acqua.
Però fare i raffronti soltanto tra pochissimi parametri dà a questo LCA lo stesso scarso valore che aveva prima quando si considerava la sola CO2 o il metano o altro e mantiene una sua coerenza soltanto riguardo al mondo vegetale.
Scoprendo l’acqua calda certamente i sistemi intensivi consumano relativamente meno energia di altri sistemi fornitori della cosìdetta carne-felice ( che per me è un controsenso) ma questo dimostra soltanto che in una visione “meccanicistica” della vita un individuo serve meglio il suo tiranno se tenuto a stecchetto senza tante pippe sul “benessere” e nessuna possibilità di fare neanche un passo, un respiro libero o un pasto che il padrone non voglia, e con la durata della breve vita stabilita già alla nascita da un intelligentissimo algoritmo………
Per concludere la VITA animale negli allevamenti intensivi perde completamente di significato, ma piace tanto ai consumatori affezionati perchè è scientificamente economica.
Ma allora siete sicuri che lo scopo della vita di un animale sia solo quello di soffrire e poi finire in pentola o sulla griglia?
Se proprio volete almeno moderatevi molto.

Claudio Buttura
Claudio Buttura
2 Febbraio 2021 14:11

Può anche avere una logica questo studio, ma va detto che se non si impediscono all’origine certe tipologie produttive numeri e statistiche servono a ben poco.
Per certi aspetti mi ricorda ciò che sta facendo il governo italiano con il covid: riapre attività, negozi ed aeroporti per poi accusare la gente di usufruirne.
Mica male, come espressione di ipocrisia…

MARIO NERA
MARIO NERA
2 Febbraio 2021 15:57

Sempre più diffusi sono gli studi sull’impronta carbonica degli alimenti e ciò, addirittura, ha portato un gruppo di studiosi a definire la dieta planetaria, cioè quella dieta che fa bene alla salute e fa bene al pianeta, proprio perché equilibra il carico calorico con l’impronta carbonica. Ora, assumendo per buoni questi dati, anche perché si avvicinano a quelli di altri studi, e sovrapponendoli alle abitudini alimentari delle famiglie italiane possiamo affermare che le scelte alimentari delle famiglie rappresentano un settore fortemente energivoro con un impatto paragonabile a quello del settore industriale. Per cui, se consideriamo la famiglia al pari un’azienda energivora, scopriamo che, in base ai consumi alimentari medi, l’impronta carbonica di una famiglia media italiana è di 3.000 kg di CO2eq., pari a circa 80 milioni di tonnellate di CO2eq con un impatto a livello nazionale quasi del 50% delle emissioni nazionali di CO2eq. Per cui l’approccio dello studio è estremamente attuale e utile a dare una valutazione più adeguata alle abitudini alimentari