Quali sarebbero le conseguenze sulla produzione di cibo nel mondo se la Russia decidesse di davvero usare le armi nucleari? L’inquietante domanda, diventata di attualità in questi giorni, non ha una risposta netta, perché le variabili in campo per prevedere le dimensioni della catastrofe sono troppe. Tuttavia, un team che comprende esperti di diverse università statunitensi ed europee e ricercatori della NASA è giunto a formulare alcune stime (tutte agghiaccianti), partendo da differenti scenari e utilizzando modelli che traggono origine da quanto è successo in passato, da cosa si ipotizza potrebbe succedere oggi e dai dati relativi alla produzione e al trasporti di merci nel mondo. Il risultato, pubblicato su Nature Food, si riassume in una cifra: nella peggiore delle ipotesi, entro pochi mesi dalla guerra nucleare ci potrebbero essere cinque miliardi di morti per fame.
Secondo un esperto di rischi globali, infatti, stiamo attraversando uno dei momenti più preoccupanti per quanto riguarda il rischio nucleare, dietro soltanto alle due crisi peggiori della storia in cui erano coinvolte armi atomiche: quella dei missili cubani del 1962 e l’incidente Able Archer 83, quando l’Unione Sovietica scambiò un’esercitazione militare della Nato per un attacco reale, arrivando vicinissima a rispondere. Gli scienziati sanno da molto tempo che gigantesche esplosioni possono avere serie conseguenze sul clima, come dimostra la catastrofica eruzione del monte Tambora in Indonesia del 1815 (la peggiore della storia). Nell’anno seguente, infatti, la cenere dispersa in atmosfera arrivò a oscurare la luce del sole e ciò diede come risultato un anno senza estate, cui fecero seguito anni di carestie e fame in tutto il mondo. Per questo, i ricercatori hanno tenuto in considerazione gli studi fatti negli ultimi decenni su che cosa succederebbe in seguito all’immissione in atmosfera di tonnellate di cenere, fuliggine e polveri derivanti dalle esplosioni e dagli immensi incendi scatenati dalle bombe.
Partendo da questi dati e da quelli attuali sugli allevamenti, le coltivazioni, la pesca, le acquacolture, e avvalendosi anche dei modelli in uso per valutare le conseguenze del riscaldamento globale (utilizzati per simulare un raffreddamento globale in seguito a una guerra nucleare), gli autori hanno ipotizzato sei scenari, con l’immissione in atmosfera di quantità di fuliggine comprese tra 5 e 150 milioni di tonnellate. I cambiamenti che ne deriverebbero sull’irraggiamento solare, le piogge e la temperatura si tradurrebbero in una drastica riduzione della produzione delle calorie derivanti da soia, mais, riso, avena e pesce e questo, a sua volta, in una perdita netta di calorie disponibili, ipotizzando che il commercio mondiale fosse interrotto e ogni paese producesse e distribuisse al meglio delle sue possibilità il cibo di cui necessita.
Pochi anni dopo un’eventuale guerra nucleare tra la Russia e la Nato, la produzione calerebbe del 90% e ciò causerebbe fino a 5 miliardi di morti per fame (in uno studio del 2020 degli stessi autori, nel quale si ipotizzava un conflitto nucleare tra India e Pakistan, le stime giungevano fino a una riduzione del 50% delle calorie prodotte e a due miliardi di morti nello scenario peggiore). E non è tutto: anche mettendo in campo contromisure quali la conversione dei mangimi per animali e degli scarti alimentari in fonti di cibo si avrebbe un impatto minimo, negli scenari peggiori.
Gli autori ci tengono a sottolineare che, per quanto accurate e basate su dati reali, queste stime sono approssimative, perché non si può prevedere l’andamento di un’eventuale guerra atomica né le reazioni dei diversi paesi, e perché si potrebbero introdurre variabili di altro tipo quali il ruolo dei raggi ultravioletti o dell’ozono e molto altro. Ma il loro scopo, scrive Science in un articolo a commento dello studio, è primariamente quello di far riflettere sul significato di un’ipotesi considerata finora irrealizzabile, ma oggi addirittura auspicata dalle frange più estreme dell’entourage di Vladimir Putin. I russi di certo non si salverebbero dalla carestia globale e dalla morte per fame.
Allo stesso scopo, e cioè per cercare di essere preparati a crisi di questa portata, lavorano enti come l’Alliance to Feed the Earth in Disasters, che dal 2017 lavora a possibili soluzioni quali, per esempio, l’incremento della coltivazione di alghe, la conversione delle cartiere per la produzione di zucchero, quella del gas naturale in proteine grazie all’impiego dei batteri e la ridistribuzione delle colture in base alle nuove condizioni climatiche, comprese quelle al chiuso come le idroponiche. Tutte queste e le altre possibili strategie hanno come obiettivo la produzione di cibo resiliente e potrebbero aumentare molto la generazione di calorie in una crisi post atomica. È comunque meglio continuare ad approfondire, concludono gli autori, in previsione di eventi climatici naturali catastrofici associati al riscaldamento globale o di altre eruzioni come quella del Monte Tambora.
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Giornalista scientifica
Per fare migliori previsioni si potrebbero fare indagini sulla Polinesia francese e sul Giappone. Al momento, a parte le propagande queste sono le principali zone danneggiate da esplosioni nucleari, due tipologie di azione umana distruttiva effettuate da chi?
Diverso il caso di Chernobyl, dove si sta riscontrando che natura e animali sono molto più resilienti di quanto gli “esperti si aspettavano.