Mentre in Italia si discute sugli aspetti legali di qualcosa che ancora non c’è – la carne coltivata – e di cui al momento è difficile prevedere quali caratteristiche avrà se e quando sarà approvata a livello europeo, in molti altri Paesi la ricerca va avanti, per arrivare a prodotti che siano sempre più simili a quelli cui siamo abituati e, al tempo stesso, sicuri e facili da produrre su scala industriale. Un passo avanti decisivo, in questa direzione, arriva ora dalla Tufts University, negli Stati Uniti, che nel 2021, grazie a un finanziamento da 10 milioni di dollari del Dipartimento dell’agricoltura, ha dato vita a un nuovo centro, il Tucca (Tufts Center for Cellular Agriculture), i cui ricercatori hanno appena pubblicato su eLife i risultati dei loro test su uno degli aspetti più critici e delicati della coltivazione: la presenza di grasso.
Nella carne derivante da animali allevati, il grasso è fondamentale per il mantenimento della struttura tridimensionale, per la consistenza e la palatabilità: secondo alcuni test su volontari, la quantità ottimale di grasso, dal punto di vista del gradimento umano, è attorno al 36%. Tuttavia, produrre grasso in vitro è tutt’altro che facile, perché le cellule tendono ad aggregarsi per dare masse compatte e queste, dopo poco tempo, in assenza dei vasi e dei capillari che nei tessuti animali apportano costantemente ossigeno e fattori nutritivi e portano via i residui del metabolismo cellulare, tendono ad andare in necrosi e a morire, letteralmente, per soffocamento. Ciò spiega perché, fin dal primo hamburger proposto da Mark Post nel 2013, quello della presenza di grasso è stato un limite oggettivo della carne coltivata, che ha reso alcuni di questi prodotti poco morbidi e asciutti, e che ha obbligato i primi produttori a realizzare al massimo strisce di pochi millimetri di spessore o l’equivalente di un macinato. Poi, nel tempo, sono state trovate soluzioni basate sull’aggiunta di grassi vegetali, che hanno portato a qualche progresso, ma neppure questa soluzione è mai stata del tutto soddisfacente. Per questi motivi la proposta dell’università statunitense potrebbe fare la differenza: coltivare anche le cellule adipose in quantità illimitate per ottenere così una carne coltivata più realistica e godibile.
Nello specifico, i ricercatori hanno utilizzato adipociti di topo e di maiale, facendoli crescere prima in una strato sottile e poi aggregandoli in una struttura tridimensionale in presenza di alginato, uno zucchero estratto dalle alghe usatissimo dall’industria alimentare, oppure di un’altra sostanza altrettanto utilizzata, la transglutaminasi microbica (Mtg). Il risultato che si ottiene è una massa compatta di cellule adipose, pronte per essere impiegata nelle carne coltivata così come in quella vegetale (che a quel punto non sarebbero più vegetali al 100%) o nei condimenti. Entrambi i tipi di grasso così ottenuti sono stati poi sottoposti a pressioni crescenti, per verificare quanto la loro texture si avvicini a quella tradizionale. Si è visto così che quello di maiale è decisamente migliore rispetto a quello murino e assomiglia molto a quello della carne di manzo o pollo di allevamento se trattato con l’alginato, e a quello del lardo o dello strutto in presenza di Mtg: differenze che lasciano intravvedere la possibilità di formulare miscele diverse, a seconda di ciò che si vuole ottenere, in base al legante scelto.
Quindi è stata analizzata la composizione degli acidi grassi, perché questi, durante la cottura, rilasciano centinaia di composti volatili che conferiscono alla carne il tipico aroma. Anche in questo caso, il maiale si è rivelato migliore, perché le miscele di grassi presenti nelle cellule coltivate sono molto più simili a quelle che si ritrovano nel tessuto dell’animale rispetto a quanto non si verifichi con il grasso di topo. Inoltre, i test hanno suggerito che, con ogni probabilità, alle cellule adipose specifici acidi grassi, sarebbe possibile ottenere il mix che si avvicina di più alla carne da allevamento (uno sviluppo molto positivo, soprattutto per la formulazione di prodotti per chi ha limitazioni specifiche sui grassi). Infine, gli ultimi test hanno riguardato la possibilità di crescere grandi masse di grasso nei bioreattori: sono state sperimentate due modalità e in entrambi i casi si è visto che non ci sono problemi particolari e che i costi sarebbero più che ragionevoli.
Tutto ciò aiuta a comprendere quanto la ricerca di base (nessuno pensa di inserire cellule adipose di topo nei prodotti per uso umano, ma sono un modello classico della ricerca di base) sulla coltivazione della carne, soprattutto quando sostenuta dai grandi atenei, stia facendo rapidamente passi in avanti molto significativi, che potrebbero portare prima del previsto a prodotti quasi indistinguibili da quelli tradizionali e, al tempo stesso, più sani e dalla composizione controllata.
© Riproduzione riservata Foto: Depositphotos
Siamo un sito di giornalisti indipendenti senza un editore e senza conflitti di interesse. Da 13 anni ci occupiamo di alimenti, etichette, nutrizione, prezzi, allerte e sicurezza. L'accesso al sito è gratuito. Non accettiamo pubblicità di junk food, acqua minerale, bibite zuccherate, integratori, diete. Sostienici anche tu, basta un minuto.
Dona ora
Giornalista scientifica