Le grandi catene fast food americane (dove le persone mangiano in media due-tre volte a settimana assumendo una parte rilevante delle calorie) negli ultimi 14 anni hanno fatto poco per migliorare la qualità della proposta culinaria. Le promesse e i buoni propositi sono stati tanti ma la realtà è cambiato poco.
Lo ha dimostrato uno studio che ha preso in esame i menu di otto tra le principali catene a stelle e strisce: McDonald’s, Burger King, Wendy’s, Taco Bell, Kentucky Fried Chicken (KFC), Arby’s, Jack in the Box e Dairy Queen.
Mary Hearst, docente di salute pubblica del St. Catherine University di Saint Paul (Minnesota), ha attinto ad un archivio, il Food and Nutrient Database del Nutrition Coordination Center della stessa università, che raccoglie i menu di 22 catene di fast food già dall’inverno 1997-1998. Il docente ha quindi selezionato le otto proposte che rispondevano a determinati criteri come la presenza sin dal primo anno, le indicazioni dettagliate, i possibili assortimenti e ha verificato la qualità. Per valutare il livello dei cibi proposti, la Hearst ha utilizzato una scala convalidata dal Dipartimento dell’Agricoltura americano, chiamata Healthy Eating Index (HEI), che assegna un punteggio da 1 a 100: 60 è il valore minimo accettabile.
Nei 14 anni esaminati (dal 1997-1998 al 2009-2010) la media del punteggio è passata da 45 a 48, restando ben al di sotto della soglia limite e del valore medio dei menu americani, arrivato negli ultimi anni a 55 punti. Il risultato contrasta con le grandi dichiarazioni di intenti delle catene che hanno cercato di rendere più salutari le loro proposte, in risposta agli appelli delle autorità sanitarie e delle associazioni di consumatori.
Analizzando i dati pubblicati sull’American Journal of Preventive Medicine, si notano alcuni elementi molto significativi. Il punteggio assegnato a frutta e verdura, succhi d’arancia, legumi, farine integrali e oli vegetali, nonostante i proclami e gli annunci riguardanti l’aumento di questi di alimenti nei menu, è rimasto sostanzialmente stabile. Al contrario i voti dati a carne, grassi saturi e calorie derivanti dai grassi saturi solidi e dagli zuccheri sono leggermente aumentati, mentre quelli relativi al latte e ai prodotti a base di latte e al sodio sono peggiorati. Sei delle otto catene hanno effettuato qualche modifica che va nella direzione indicata dalle autorità sanitarie, aumentando l’offerta di frutta e verdura, ma siamo ancora molto lontani da una situazione ottimale.
Chiaro il commento della Hearst: “I fast food hanno un ruolo fondamentale nell’alimentazione degli americani e possono averne uno ancora più importante contribuendo a modificare le abitudini attraverso opportuni menu. Anche se qualcosa è stato fatto, moltissimo resta da fare”.
L’articolo è stato accompagnato da un editoriale di commento in cui Margo Wootan, direttore del Center for Science in the Public Interest , è ancora più netta: “Un miglioramento di così modesta entità è sorprendente, se pensiamo a tutto quello che queste aziende hanno affermato di voler fare negli ultimi anni sui menu in generale, sui grassi, sul sodio”. Per migliorare in modo più netto e incisivo, ha concluso la Wootan, i fast food dovrebbero adeguarsi a un programma in sei punti che prevede, in sintesi:
• riduzione di tutte le porzioni e vendita di porzioni dimezzate a prezzi convenienti
• aumento di frutta e verdura
• riduzione graduale del sodio
• aumento di alimenti integrali
• vendita di bevande gassate e zuccherate in bicchieri con una capacità massima di 450 ml
• indicazione chiara delle calorie per ogni piatto.
Infine, sempre secondo Wootan, i ristoratori dovrebbero aderire nei fatti (e non solo nelle intenzioni) al programma della National Restaurant Association specifico per i bambini Kids Live Well, e intensificare le campagne pubblicitarie volte a promuovere il consumo di alimenti e bevande più sane vendute nei loro locali.
Agnese Codignola
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