
Da qualche anno, la percentuale di pesce nato e cresciuto in acquacoltura ha superato, nei consumi, quella di pesce pescato direttamente in mare o nei fiumi. La domanda di pesce, crescente in tutto il mondo, non può infatti più essere soddisfatta del tutto dagli esemplari selvatici, molti dei quali fortemente depauperati, quando non a rischio estinzione, a causa degli eccessi del prelievo degli ultimi decenni.
Pesce, grassi e proteine
Ma la progressiva espansione delle acquacolture ha un prezzo ambientale molto alto, e quantificato solo parzialmente. Allo scarico a mare delle acque reflue contenenti anche farmaci e parassiti, causa di eutrofizzazione, va infatti aggiunto un fattore determinante: la necessità di fornire farine e oli di pesce ai pesci da allevare. Quasi tutti quelli allevati, infatti, sono grandi e carnivori come si salmoni, la specie più allevata di tutte, e vanno alimentati con farine animali, perché quelle vegetali molto spesso non hanno abbastanza proteine, e possono modificare in senso negativo il microbiota dei pesci. Inoltre, i pesci necessitano di elevati quantitativi di lipidi “buoni”, come i grassi monoinsaturi e polinsaturi, (molto più degli animali terrestri allevati), e questo spiega perché, oltre alle farine di pesce, siano necessari enormi quantitativi di oli, anch’essi di pesce.
Tutto ciò ha stimolato la nascita di moltissimi stabilimenti per la produzione di farine e oli attraverso la lavorazione sia dei pesci più piccoli sia degli scarti, sparsi in decine di paesi diversi. Secondo le ultime stime, pubblicate nel 2024, l’86% delle farine e il 73% degli oli di pesce è destinato a questo scopo. E la richiesta di farine, da parte delle aziende, è raddoppiata tra il 2000 e il 2021.
Ora però, finalmente, per la prima volta uno studio pubblicato su Science Advances da ricercatori di alcuni dei paesi coinvolti come il Canada, che ha coordinato il lavoro, e poi il Sud Africa e gli USA, fornisce dei numeri e delle localizzazioni, che dipingono una realtà assai variegata, con numerose criticità e alcuni esempi da estendere.

Centinaia di aziende
I dati, ottenuti incrociando le immagini satellitari, le informazioni dei database commerciali e di quelli pubblici, quelle dei siti delle aziende e quelli delle società di certificazione delle filiere, mostrano che esistono 503 stabilimenti in 63 paesi, in mano a circa 400 proprietari. I paesi dove la concentrazione è maggiore sono il Perù, di gran lunga il primo, con 125 stabilimenti, seguito dalla Mauritania, che ne ha 42, e la mappa mostra che, per quanto riguarda la localizzazione, le aziende sono diffuse nelle zone costiere di tutto il Nord e il Sud America, con un numero maggiore nel versante del Pacifico, e poi in Nord Europa, con un’estensione che raggiunge la parte più occidentale della costa africana, così come in India, in Cina, in tutto il Sud Est Asiatico, in Australia e in Nuova Zelanda.
Vi sono poi molti più stabilimenti per la produzione di farine che di oli; i primi sono rappresentati in tutta l’Asia, in Europa e nelle Americhe, mentre i secondi si trovano per lo più in Cina, in India, nel Golfo Arabico negli Stati Uniti e in Cile.
Quale pesce?
Il dato più importante riguarda però la materia prima e il rendimento. Oltre il 40% proviene infatti ancora oggi da piccoli pesci pescati in mare aperto, e questo mette a durissima prova le economie locali di paesi come la Mauritania, che si sono affidate alla pesca per millenni, e che non hanno molte alternative, oltre a porre a rischio estinzione le specie interessate. Diverso è invece l’impatto su economie come quella norvegese o quella danese, paesi ricchi, che hanno sviluppato filiere tecnologicamente avanzate, molto efficienti, dove lo scarto è minimo e il rendimento ottimale. Esistono poi ancora diverse zone grigie come la Cina, paese il cui governo non fornisce dati ufficiali, i gestori non hanno quasi mai siti internet e dove capire esattamente quale sia la situazione è assai complicato, anche per le barriere linguistiche.
Come migliorare
L’analisi della realtà attuale permette di capire innanzitutto l’importanza di questo tipo di mappatura: solo avendo un’idea relativamente precisa della situazione si possono programmare interventi mirati, sia di segno restrittivo che di significato positivo. Così, i paesi più vulnerabili dovrebbero introdurre limitazioni, regolamentazioni e soprattutto trasparenza, mentre quelli più forti, che hanno saputo dare vita a filiere sostenibili, costituire un esempio ed essere anche sostenuti, quando è il caso, dal momento che le acquacolture continueranno a esistere e anzi ad aumentare.
Le informazioni, che dovranno essere aggiornate regolarmente, potranno poi contribuire – e non poco – a monitorare gli impatti ambientali dei produttori di farine e oli, così come quelli delle acquacolture collegate. E a intensificare le ricerche su finti proteiche alternative come quelle vegetali.
Ovviamente – concludono gli autori – la scienza può solo intervenire in questo tipo di ambito. Accanto a essa, per determinare autentici cambiamenti e avere cibo sostenibile anche dal punto di vista ambientale e da quello delle popolazioni più esposte, serviranno le azioni della politica, l’impegno delle aziende e il coinvolgimento delle comunità.
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Giornalista scientifica
La specie più allevata non è il salmone. Carpa, tilapia e anche gamberi hanno tonnellaggi maggiori, a livello globale.
Ha ragione le specie più allevate al mondo sono i pesci di acqua dolce come la carpa soprattutto in Asia (Cina, India, Bangladesh), la Tilapia (principalmente Oreochromis niloticus) molto allevata in Asia, Africa e America Latina e il Pesce gatto da noi conosciuto con il nome i Pangasio diffuso in Asia (Vietnam, Thailandia) e in parte negli USA e molto esportato anche in Europa.In Italia è molto allevata la Trota.
Fra i pesci marini c’è il Salmone atlantico (Salmo salar) allevato soprattutto in Norvegia, Scozia e Cile, l’Orata, il Branzino e la Ricciola allevati molto nel Mediterraneo (Grecia, Turchia, Italia). Fra i crostacei ci sono poi i gamberi (gambero bianco tropicale, Litopenaeus vannamei) allevato in Ecuador, India, Vietnam, Thailandia.
Spero che la situazione sia cambiata, ma fino a 15 anni fa in Paesi come Madagascar, Sri Lanka o Senegal una gran percentuale di prodotto della pesca artigianale (vado a memoria, ma in Senegal addirittura il 67 %) veniva sprecato per la mancanza di una catena del freddo adeguata e/o a causa di prassi di conservazione scorrette e imballaggi a rischio di infestazioni. Migliorare questi aspetti potrebbe contribuire quanto meno ad attenuare il problema, peraltro ben descritto nell’articolo.