Negli ultimi mesi si è parlato molto delle cosiddette fake meat, le carni a base vegetale che stanno avendo un grande successo come surrogato di quelle animali. Ma le conseguenze sul clima e sull’ambiente che questi prodotti dovrebbero aiutare a combattere non arrivano solo dagli allevamenti intensivi: dipendono anche dalla pesca e dalle acquacolture. E i prodotti del futuro prossimo saranno anche, di conseguenza, i fake fish.
La necessità di modificare certi sistemi di pesca è stata dimostrata in numerosi studi degli ultimi anni. Per esempio, in base a quanto pubblicato su Nature dai ricercatori dell’Università dello Utah, la pesca a strascico è associata a 1,47 giga-tonnellate la quantità di CO2 all’anno: un’impronta superiore a quella di tutta l’industria aereonautica. Oltre al traino, nel solo 2016 la pesca tradizionale ha emesso 207 milioni di tonnellate di CO2, un aumento vertiginoso rispetto al 1950, quando le tonnellate erano 47 milioni, secondo quanto pubblicato su Marine Policy. L’inquinamento è poi causato soprattutto dalla pesca alle aragoste e ai gamberi, che comporta emissioni molto elevate (e superiori a quelle degli allevamenti di maiali e mucche messi insieme).
In generale, la pesca in mare può essere anche più inquinante degli allevamenti, perché riportare a terra il pescato fa consumare moltissimo combustibile. E allora ecco la risposta vegetale: la catena Whole Foods e la concorrente Thrive Market, negli Strati Uniti, propongono già i pesci come quelli di Good Catch, azienda fondata nel 2016, finanziata con robuste iniezioni di capital venture, che aspira a diventare ciò che brand come Impossible e Beyond Food rappresentano per la carne. Good Catch offre diversi prodotti che ricordano il tonno, i gamberi e il pesce tipo merluzzo, tutti costituiti da sei tipi di legumi: piselli, ceci, lenticchie, soia, fave e fagioli marini, più olio estratto dalle alghe e acidi grassi omega tre, per ricordare anche l’odore e la consistenza dei pesci. Ma Good Catch ha già molti competitor, tra i quali Van Cleve Seafood, Sophie’s Kitchen, Plant Based Seafood, a riprova della vitalità del settore.
Per quanto riguarda la diminuzione dell’impronta ambientale di questi prodotti rispetto ai pesci, non ci sono ancora studi specifici, anche se si può far riferimento a quelli fatti sulle carni, che hanno mostrato una diminuzione di molti indicatori negativi quali il consumo di acqua ed energia, le emissioni e la contaminazione del suolo. Ma nel caso del pesce ci sono anche altri elementi che migliorerebbero sensibilmente se il mercato fosse diverso. Su tutti, si avrebbe finalmente una diminuzione del pesce ributtato in mare perché non adatto al mercato, che oggi costituisce circa il 10% di tutto il pescato, e ci sarebbe anche un calo dello sfruttamento della manodopera illegale, spesso costituita da immigrati irregolari.
Come ricordato anche in un articolo pubblicato dal New York Magazine, non si può pensare che tutto il pesce sia sostituito da surrogati vegetali: questo è un punto di vista tipicamente occidentale e da persone benestanti. Piuttosto, questi prodotti potranno essere utili per riequilibrare il settore e per attenuare la pressione sul mare e diminuire le emissioni, insieme ad altri elementi. Per esempio, le acquacolture stanno migliorando e, nei prossimi mesi, si pensa che anche la carne coltivata di pesce possa arrivare sul mercato per sostituire, almeno in parte, il pescato. Gli amanti del pesce dovranno insomma abituarsi, come stanno facendo quelli della carne, a uno scenario misto, più ampio di quello tradizionale, e che preveda anche i surrogati vegetali.
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Giornalista scientifica
Quasi 8 miliardi di persone, è impensabile che tutti sostituiscano prodotti animali o che sviluppino una sensibilità ambientale.
Gran parte dell’occidente benestante può e dovrebbe.