Tre italiani su 10 sono sovrappeso e uno su 10 è obeso. Secondo il sistema di rilevazione Passi, curato dall’Istituto superiore di sanità, questi numeri sono più o meno stabili da 10 anni a questa parte, e non è certo un dato rassicurante, perché l’obesità rappresenta un fattore di rischio per patologie come diabete tipo 2, malattie cardiovascolari e cancro.
L’obesità è una condizione dovuta a numerosi fattori, per la quale ancora si discute se sia da considerare una malattia oppure no (vedi questo articolo). Gli effetti negativi, a parità di eccesso ponderale, sono molto diversi da una persona all’altra, ma in generale, comunque, è opportuno affrontare un trattamento per la perdita di peso, cioè una dieta dimagrante. Tuttavia, il primo motivo che induce a intraprendere un regime alimentare di questo tipo, nella maggior parte dei casi, non è di natura sanitaria, ma estetica, e buona parte delle persone che affrontano una dieta dimagrante non avrebbe nessun bisogno di perdere peso.
Per questo motivo, un capitolo del voluminoso dossier che accompagna le nuove Linee guida per una sana alimentazione, presentate da poco dal Crea, ha il titolo “Attenti alle diete e agli integratori”, due aspetti che rientrano nelle scelte ‘autogestite’ dei pazienti/consumatori e spesso viaggiano insieme, come accade per esempio per la dieta Life120 di Adriano Panzironi.
D’altra parte, chi necessita di perdere peso affronta un percorso molto complesso: le diete dimagranti propongono regimi alimentari molto rigidi, difficili da seguire, anche per l’impatto sulla vita sociale. Numerose ricerche, inoltre, dimostrano che è faticoso mantenere nel tempo i risultati raggiunti e questo è vero soprattutto quando la dieta seguita è particolarmente restrittiva. I primi risultati positivi hanno un effetto esaltante, spesso però, nella fase di mantenimento, si recupera il peso. Si dice infatti che “il miglior modo per ingrassare è quello di cominciare una dieta”. Questo accade in parte perché le diete troppo restrittive non possono – né devono – essere assimilate come un cambiamento duraturo dello stile alimentare, in parte perché in condizioni di carenza energetica il nostro organismo attiva meccanismi biochimici che permettono di risparmiare energia e abbassa il metabolismo basale, con il risultato che una volta sospesa la dieta è molto più facile ingrassare. Si ricade allora nella ‘sindrome dello yo-yo’, in cui si alternano periodi di riduzione e aumento del peso, dannosa sia dal punto di vista fisico che psicologico.
In generale quindi, pare banale ma è importante sottolinearlo, per ridurre la diffusione dell’obesità e aumentare l’aspettativa di vita è molto più efficace prevenire piuttosto che ricorrere a trattamenti per la perdita di peso.
Qualsiasi regime dimagrante prevede un apporto energetico ridotto rispetto al fabbisogno: se si introduce meno energia di quella necessaria, è chiaro che l’organismo andrà a bruciare le scorte, che sono prevalentemente sotto forma di grassi. Su questo aspetto non ci sono dubbi, ciò che invece differenzia una dieta dall’altra è la scelta delle categorie di alimenti e nutrienti da ridurre: cosa eliminare, cosa mangiare e in quali quantità.
Le diete che attualmente vanno per la maggiore, peraltro sulla cresta dell’onda, con diverse declinazioni, da svariati decenni, sono quelle low carb, cioè con un ridotto apporto di carboidrati. Secondo le conoscenze scientifiche accreditate, su cui si basano le linee guida internazionali, i carboidrati dovrebbero fornire il 45-60% dell’energia giornaliera. Sono definite low carb tutte le diete che propongono un apporto inferiore al 40%, in alcuni casi ridotto fino al 5%. Riducendo i carboidrati il regime può essere basato prevalentemente sulle proteine – si parla allora di diete iperproteiche, come la dieta Dukan o la Tisanoreica (ne abbiamo parlato qui) – oppure sui lipidi, come le diete chetogeniche (ne abbiamo parlato qui). In questi casi, la carenza di carboidrati modifica il metabolismo e spinge l’organismo a bruciare i grassi di deposito trasformandoli in corpi chetonici, da cui deriva il nome.
“La dieta chetogenica – dice Lucilla Titta, nutrizionista, ricercatrice all’Ieo (Istituto europeo di oncologia) – è stata ideata come terapia per alcune forme di epilessia resistenti ai farmaci. Poi, visto che portava a una drastica riduzione del peso, è stata utilizzata come dieto-terapia in caso di grave obesità. È praticata anche da persone che non si trovano in queste condizioni, per dimagrire. In questi casi il calo ponderale in un primo tempo è rapido ed è dovuto in buona parte al fatto che le trasformazioni del metabolismo indotte da questo regime determinano una perdita di acqua. Le diete chetogeniche poi sono apprezzate anche perché gli alimenti ricchi di grassi danno un effetto di sazietà. Nel tempo però è difficilissimo mantenere il peso raggiunto”.
Un regime di questo tipo, a lungo andare, può essere dannoso per i reni e per l’apparato circolatorio. Quando si escludono i latticini aumenta il rischio di malattie del sistema scheletrico, inoltre la prevalenza di alimenti di origine animale è scoraggiata da tutte le raccomandazioni ufficiali, in quanto questi sono associati a svariate patologie. Senza dimenticare l’impatto ambientale di questi alimenti, sottolineato recentemente da numerosi studi.
“Non ha senso che questo tipo di dieta sia applicata sulla popolazione in generale, perché non sono noti gli effetti sulla salute a lungo termine. – Sottolinea Titta – Le diete low carb, determinano una drastica riduzione di frutta e verdura e questo significa una deplezione nell’apporto di vitamine, minerali e fibra, con un impatto negativo sul rischio cardio-vascolare. Dal punto di vista psicologico, poi, la mia esperienza mi porta a pensare che sia facile entrare in un circolo vizioso, per cui si alternano periodi di drastica riduzione dei carboidrati a fasi in cui questo risulta psicologicamente inaffrontabile, quindi i pazienti fanno delle gran mangiate di carboidrati della peggior specie: pizze, focacce, brioche…Arrivano a vedere i carboidrati come cibo ‘cattivo’ ed è molto difficile uscire da quest’ottica. La ricerca però dimostra che non è affatto così. Secondo uno degli studi più accreditati, pubblicato nel 2018 su The Lancet, l’intervallo protettivo, quello in cui l’aspettativa di vita è più elevata, si ha quando i carboidrati forniscono dal 45 al 60% dell’energia. Il rischio di mortalità aumenta con un consumo di carboidrati inferiore al 40% e superiore al 70%. I carboidrati cui si fa riferimento non sono gli zuccheri semplici, che non dovrebbero rappresentare più del 10% dell’apporto calorico giornaliero (circa 50 grammi), ma carboidrati complessi, assunti in prevalenza come cereali integrali.”
“Le conoscenze attuali – conclude Titta – non giustificano l’idea che le diete low carb siano più efficaci di altri regimi per perdere peso, e tanto meno che permettano di stabilizzarsi sul peso desiderato. È più utile un regime a ridotto apporto calorico in cui siano rappresentati tutti i diversi nutrienti. Questo, associato alla giusta dose di attività fisica, dovrebbe diventare un nuovo stile alimentare da seguire in modo stabile, senza andare in contro al rischio di carenze e senza esagerare con gli alimenti di origine animale”.
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Giornalista pubblicista, laureata in Scienze biologiche e in Scienze naturali. Dopo la laurea, ha collaborato per alcuni anni con l’Università di Bologna e con il CNR, per ricerche nell’ambito dell’ecologia marina. Dal 1990 al 2017 si è occupata della stesura di testi parascolastici di argomento chimico-biologico per Alpha Test. Ha collaborato per diversi anni con il Corriere della Sera. Dal 2016 collabora con Il Fatto Alimentare. Da sempre interessata ai temi legati ad ambiente e sostenibilità, da alcuni anni si occupa in particolare di alimentazione: dalle etichette alle filiere produttive, agli aspetti nutrizionali.