“Il coronavirus è nell’aria: c’è troppa attenzione sulle superfici”. Si intitola così un editoriale che la rivista Nature dedica a un tema sul quale, nei giorni scorsi, ha pubblicato anche un lungo articolo per fare il punto su una delle questioni più dibattute degli ultimi mesi. Se è vero che all’inizio della pandemia si è data molta importanza alla possibile trasmissione del virus attraverso il contatto con vari tipi di superfici (e su questo sono stati condotti decine di studi), è altrettanto vero che non è quella la via preferenziale di contagio. Il materiale genetico del coronavirus è infatti presente quasi ovunque, ma questo non significa affatto che ci si possa infettare toccandolo. Perché ciò accada occorre che siano presenti particelle virali integre, vitali e in grado di riprodursi.
Nei primi giorni della pandemia, nel febbraio 2020, è stata l’Oms a lasciar intendere, nelle sue linee guida, che il coronavirus si potesse trasmettere attraverso le superfici, e nell’aggiornamento di maggio ha raccomandato di disinfettare o sanificare regolarmente quelle dei luoghi più frequentati dalle persone come i mezzi di trasporto, le chiese, le scuole e i negozi.
Ma già uno studio uscito nel luglio 2020 su Lancet Infectious Diseases e intitolato significativamente “Esagerato il rischio di trasmissione di Sars-CoV-2 attraverso le superfici” sottolineava come fosse assai improbabile che il contagio avvenisse così. In quelle settimane anche i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) di Atlanta si sono espressi in modo analogo, specificando che la trasmissione attraverso le superfici non è una modalità comune di contagio.
Nel frattempo, però, è cresciuto anche il business dei disinfettanti, che globalmente hanno venduto prodotti per 4,5 miliardi di dollari. E la Cina ha cercato – e ancora ci prova – ad attribuire l’origine dell’epidemia esplosa a Wuhan a questa modalità: il virus già adattato agli esseri umani, secondo la narrazione cinese, sarebbe arrivato dall’Europa attraverso alimenti surgelati contaminati. I Cdc locali, per rafforzare questa idea, a differenza di tutte le altre agenzie omologhe di altri Paesi, continuano a consigliare una robusta disinfezione degli ambienti e delle superfici, soprattutto in ambito alimentare, affermando che è “importante”.
Naturalmente c’è chi sta cercando, da tempo, di spiegare che non bisogna concentrare troppo l’attenzione su questo aspetto per almeno due motivi: il denaro speso in operazioni di sanificazione potrebbe essere impiegato molto meglio in altri provvedimenti, a cominciare dall’aereazione degli ambienti, per la quale non si fa abbastanza (anche perché è molto più costoso intervenire). In secondo luogo, un uso dissennato di disinfettanti di ogni tipo nelle più diverse circostanze è un formidabile stimolo per la selezione di ceppi di batteri resistenti e può essere tossico (come già emerso per la sanificazione delle strade con candeggina, inutile e dannosa).
Tuttavia, ammettono tutti, non si può escludere il contagio attraverso le superfici, ed è comunque importante che le persone continuino a lavarsi le mani. Questo complica le cose e rende difficile esprimersi in modo netto.
Lo si capisce molto bene quando si vanno a cercare le tracce del coronavirus in ambienti dove sono state persone infette. Per esempio, in ambito ospedaliero il genoma virale si trova ovunque, sugli occhiali, sulle bottiglie d’acqua, nei letti, nei ventilatori, nei bagni, e lo stesso accade nei ristoranti, negli alberghi e nelle navi da crociera, come è accaduto per la nave Diamond Princess, una delle prime a essere posta in quarantena. Le indagini effettuate sulla Princess 17 giorni dopo che tutti avevano lasciato la nave hanno rivelato tracce del virus in tutte le cabine dei 712 passeggeri e membri dell’equipaggio positivi. Ma ciò non significa che il contagio all’interno della nave si sia diffuso così.
Quando si fanno test in laboratorio – sottolineano alcuni degli esperti interpellati da Nature – si trovano riscontri che hanno uno scarso significato, perché le condizioni sperimentali sono troppo diverse da quelle reali. Per esempio, di solito si utilizzano enormi quantità di virus, oppure si definiscono condizioni fisse di temperatura e umidità, ma nella vita reale tutto è molto più variabile.
Ci sono stati alcuni studi che hanno testato oggetti quotidiani (ma sempre in condizioni di laboratorio) e dimostrato, per esempio, che il virus resta vitale sulle mascherine chirurgiche per sette giorni, sulle banconote per tre, su superfici di acciaio o plastica per sei e sulla pelle per quattro. Ma altri hanno trovato una vitalità molto inferiore: sui vestiti non rimarrebbe vitale per più di otto ore. Non ci sono ancora certezze assolute.
Illuminante, invece, un’indagine condotta in Israele in condizioni reali, dai ricercatori dell’Assuta Ashdod University Hospital, in due reparti ospedalieri Covid e in un Covid Hotel su una quantità di superfici di ogni tipo: metà di quelle ospedaliere e un terzo di quelle dell’hotel sono risultate contaminate. In nessun caso però il virus trovato si è dimostrato in grado di infettare cellule umane. Uno degli unici casi in cui è stato il coronavirus presente nell’ambiente che avrebbe potuto contaminare la persona, è stato documentato in un altro studio in cui è stata prelevata aria nel raggio di due metri da persone infette, in cui erano presenti le celeberrime droplets.
In ottobre l’Oms ha aggiornato le sue linee guida, in cui ha mantenuto l’affermazione secondo cui il contagio può avvenire per contatto con superfici infette, anche se viene ritenuto improbabile. Nature non ha dubbi: l’igiene delle superfici e delle mani ha un ruolo non secondario, ma è molto, molto più importante e utile concentrarsi sul ricambio dell’aria ed evitare che si creino assembramenti in luoghi chiusi.
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Giornalista scientifica