Coronavirus: cosa possiamo imparare dall’epidemia che ha colpito i maiali americani. Il virus fermato da strette misure di biosicurezza
Coronavirus: cosa possiamo imparare dall’epidemia che ha colpito i maiali americani. Il virus fermato da strette misure di biosicurezza
Agnese Codignola 25 Maggio 2020C’è stato un altro coronavirus che ha messo a dura prova un’intera filiera: quello che, a partire dal 2010, ha colpito i maiali americani, arrivando a causare l’abbattimento o la morte del 10% degli animali, non essendo disponibili, allora come oggi, né un vaccino né una terapia. Oggi la sua diffusione è sotto controllo, e dagli strumenti che hanno portato alla sconfitta del virus si può trarre qualche lezione anche per il Covid-19. Questo il commento di Katherine Wu, autrice dell’articolo pubblicato sullo Smithsonian Magazine, che racconta una vicenda assai poco conosciuta, ma che ha moltissimi punti in comune con l’attuale crisi da Sars-CoV-2.
Dalla primavera del 2013, quando il virus è arrivato negli Stati Uniti, si è velocemente diffuso in 32 stati, fino a causare la morte di 8 milioni di suini (pari appunto al 10% del totale dei capi a livello nazionale) che erano totalmente indifesi, non essendo mai entrati in contatto con quel particolare coronavirus, chiamato Porcine Epidemic Diarrhea Virus (PEDv). Ma poco più di un anno dopo l’epidemia era quasi scomparsa, per merito dei sistemi di diagnosi, che nel frattempo erano stati affinati, della parziale immunità di gregge acquistae delle severissime misure di contenimento, disinfezione e isolamento messe in pratica: l’unica arma che ancora oggi può contenere il virus.
Il PEDv causa una malattia diversa da quella del Covid-19: si localizza prevalentemente nell’intestino e provoca una diarrea che può portare alla morte in pochi giorni, soprattutto nei maialini. Come per il Covid-19, però, anche in questo caso ci sono soggetti naturalmente resistenti, specialmente se più anziani, che hanno pochi o nessun sintomo.
La sua storia è iniziata molti anni fa, nei primi anni Settanta, quando i veterinari britannici notarono una diarrea non particolarmente grave, ma piuttosto contagiosa. Essendo di origine sconosciuta e considerata non troppo pericolosa, non si fece praticamente nulla, e la malattia si diffuse in moltissimi allevamenti britannici, restando endemica.
Poi, nel 2010, la svolta. Il virus ricompare in Cina, mutato, e dilaga. Non si sa bene come, ma in qualche modo riesce a varcare ancora le frontiere e nel 2013 arriva negli Stati Uniti, prima in Ohio, poi in Indiana e Iowa, e alla fine in gran parte del paese: è una strage, soprattutto dei maialini più piccoli, che in alcuni allevamenti muoiono tutti. Gli allevatori, molto preoccupati, raccolgono campioni di feci e li inviano ai laboratori di analisi, ma questi non rilevano nessuno dei patogeni endemici dei suini, e il mistero si infittisce. Per diverso tempo, infatti, nessuno pensa al PEDv, perché non si ritiene probabile che quel virus possa essere arrivato negli Stati Uniti, e questo permette al patogeno di espandersi ulteriormente. E invece non solo si tratta proprio di quel virus, ma nel frattempo il PEDv è mutato, diventando molto più contagioso e aggressivo.
Avvalendosi della trasmissione oro-fecale, il virus è passato di allevamento in allevamento anche attraverso i mezzi di trasporto, gli indumenti (stivali e non solo), le gabbie, i mangimi e qualunque cosa sia entrata in contatto con gli animali malati, anche perché, a differenza del Sars-CoV-2, resta vitale per giorni anche sulle superfici. Il che rappresenta un enorme problema, perché la filiera prevede che gli animali si muovano molto, passando da un allevamento all’altro e arrivando infine al macello. Se poi a questo si aggiunge il vettore umano, e cioè gli allevatori, i veterinari, i macellatori, ben si comprende perché l’avanzata del virus per alcuni mesi sia stata inarrestabile.
La reazione però, è stata drastica, anche perché si sapeva di non poter contare né su un vaccino né su farmaci. Sono stati preparati rigidi protocolli di sanificazione e isolamento che tenevano in considerazione tutti i più piccoli meandri nei quali avrebbe potuto annidarsi il virus, e sia gli uomini che i suini sono stati considerati come potenziali vettori, fino a prova contraria. Ciò ha significato l’adozione di regole come l’obbligo di docce e svestizioni prima e dopo il contatto con i maiali, la chiusura di molte fattorie e le continue sanificazioni da fare anche in assenza di casi o anche solo di sospetti.
Nell’autunno del 2014 l’epidemia è stata considerata finita, ma molte misure sono rimaste. Da allora sono comparsi qua e là altri piccoli focolai, subito individuati e contenuti con il lockdown. Proprio ciò che si spera si realizzi nelle fasi 2 e soprattutto 3 anche contro il Covid-19.
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Giornalista scientifica