Per ridurre il rischio di nuove pandemie causate da agenti infettivi trasmessi dagli animali (le zoonosi), è fondamentale modificare profondamente il sistema alimentare di molti paesi. In particolare bisogna evitare che continuino a operare mercati dove si vendono animali selvatici e non, spesso vivi e macellati sul momento, e allevamenti nei quali non ci sono controlli, ed è anche necessario aumentare drasticamente la sorveglianza. Lo ripetono ormai da mesi tutte le principali autorità sanitarie mondiali, i ricercatori più accreditati e i divulgatori più ascoltati, ma finora hanno avuto scarso successo. A sostenere i loro sforzi e a dare ulteriore concretezza ai loro argomenti arrivano ora due studi pubblicati negli stessi giorni, che affrontano due aspetti di questo tema concentrandosi sui coronavirus.
Nel primo, pubblicato su Plos One da ricercatori vietnamiti e americani, emerge quanto i coronavirus siano presenti nelle carni dei pipistrelli e dei ratti, due degli animali sospettati di essere serbatoi naturali di Sars-CoV-2, Mers-CoV e Sars-CoV, e quanto, purtroppo, il loro commercio sia ancora una sorta di far west.
Tra il gennaio del 2013 e il marzo del 2014, infatti, i ricercatori sono andati a raccogliere oltre 2.100 campioni da 70 tra allevamenti e macelli di ratti, centri di produzione di guano (le cosiddette guano farms, fattorie dove si trattano gli escrementi di pipistrelli da rivendere come fertilizzanti), mercati, ristoranti e grotte di pipistrelli della regione del delta del Mekong, ricorrendo a tamponi orali o di organi interni (dopo la macellazione) e tamponi orali, fecali e ambientali in caso di animali vivi. Quindi hanno analizzato e sequenziato i campioni, trovando coronavirus in 58 dei 70 siti. In particolare, i virus erano presenti in tutti i luoghi in cui si commerciavano ratti vivi, compresi i ristoranti, dove il tasso di positività dei campioni era del 55%. In più erano presenti nel 94% delle guano farms e in una grotta di pipistrelli selvatici, dove era più facile trovarne nella stagione umida che va da maggio a ottobre (nel 27% dei campioni, contro il 2% della stagione secca), a riprova di una certa stagionalità dei coronavirus.
Dal punto di vista genetico, inoltre, i coronavirus sono risultati appartenere a 17 ceppi diversi, alcuni dei quali con elementi in comune, a conferma dello scambio tra le specie e della capacità di questi virus di adattarsi e rimescolare il proprio genoma con quelli di altri ceppi. E tutto accade – hanno riferito ancora i ricercatori – mentre ovunque gli operatori e le loro famiglie entrano in contatto con le feci, le urine, i visceri, il sangue degli animali, come documentato anche dalle fotografie presenti nella pubblicazione.
Il fatto preoccupante, ha fatto notare Annalisa Chand in un articolo pubblicato su Nature Food che riprende lo studio, è che in Vietnam, così come in Cambogia, il consumo della carne di pipistrello è comune e, fin dai primi anni Duemila, è in aumento quello di ratti soprattutto a causa della “sponsorizzazione” da parte di ricchi clienti di ristoranti, che li considerano una pietanza di lusso.
Ma il pericolo non viene solo dall’Oriente. Nel secondo studio, infatti, i ricercatori dello University College di Londra e altri istituti hanno dimostrato che sono ben 28 le specie di vertebrati regolarmente a contatto con gli esseri umani che potrebbero ospitare coronavirus. Come riferito su Scientific Reports, infatti, sono decine e decine le specie animali che esprimono una loro versione del recettore ACE2, la porta di ingresso del virus nelle cellule, che a esso si lega tramite la famosa proteina spike. Ma delle 215 specie prese in considerazione, solo alcune hanno un’ACE2 ottimale perché avvenga un legame stabile e quindi funzionale all’“invasione” del virus.
Altre, invece, presentano versioni del recettore ideali. Tra le specie più note vi sono le pecore (anche se, va ricordato, finora non sono mai stati effettuati tamponi che confermino la presenza del virus nella realtà), molti primati, le tigri e i leoni, animali domestici quali cani, gatti e furetti, e animali da allevamento come i visoni, recentemente al centro di molti focolai nei Paesi Bassi . Sembrano invece meno pericolosi i pesci, gli uccelli e i rettili. Il modello ha correttamente previsto l’infezione in cani e gatti e in altre specie dove è stato isolato il Sars-CoV-2, così come quella effettuata in alcuni laboratori a scopi di studio, ad esempio sui furetti. Tutto ciò, secondo gli autori, aiuta a conoscere meglio il coronavirus, a tutto vantaggio degli stessi animali, oltre che delle persone, e dovrebbe servire anche da stimolo tanto per i singoli, che devono abituarsi a comportamenti sempre prudenti quanto entrano in contatto con gli animali, quanto per i decisori, che dovrebbero dare più importanza (e risorse) a programmi di sorveglianza ampi e capillari.
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Giornalista scientifica