I social media sono pieni di fotografie, post e storie che hanno come tema principale il cibo, da ogni punto di vista: ricette, diete, piatti pronti, allergie, scelte come il veganesimo e così via. Ma questa rappresentazione quanto influenza il rapporto con il cibo di chi tutti i giorni è esposto a questi stimoli, di solito più volte nell’arco delle 24 ore? La domanda se l’è posta Jessica Brown della BBC, che ha intervistato numerosi esperti di varie discipline per analizzare i diversi aspetti della questione, e cercare di fornire una risposta.
Uno dei primi problemi, comune anche ad ambiti diversi dal cibo, riguarda la rappresentazione sui social di una realtà perfetta: in questo caso, piatti sempre riusciti e magnifici da vedere, che invogliano a mangiare. Quanto influenzano il desiderio queste immagini, visto che non si sentono né aroma né gusto della pietanza? La risposta sembra chiara: la stimolazione visiva è comunque molto efficace e può spingere a mangiare, sottolinea Suzanne Higgs, docente in psicobiologia dell’appetito dell’Università di Birmingham. Molto, però, dipende dalla considerazione che si ha di chi ha messo la foto: se si tratta di qualcuno ritenuto un modello (e quindi un influencer), secondo Solveig Argeseanu, docente di epidemiologia e medicina globale dell’Università di Atlanta, si tenderà a imitarlo/a, e a comportarsi nello stesso modo, quindi a mangiare quel piatto così perfetto, ma se così non è lo stimolo sarà meno potente.
Un altro aspetto importante è il tipo di alimento rappresentato, perché gli esseri umani tendono a gradire il cibo particolarmente calorico, a discapito di quello più sano, per motivi evoluzionistici: preferiamo ciò che ci può assicurare più energia o ciò che induce piacere, anche quando non ne abbiamo alcun bisogno. Per questo siamo particolarmente attratti, secondo gli scienziati, dalle fonti proteiche che ‘trasudano’ liquidi, come un tuorlo d’uovo crudo o una mozzarella gocciolante, ma anche dagli acidi grassi saturi che, una volta assunti, inducono il rilascio di dopamina, facendo quindi nascere sensazioni piacevoli che si cerca di riprodurre tutte le volte possibili.
Oltretutto, i cibi sani sono spesso associati un’idea di qualcosa di noioso, serio e poco cool, come fa notare Tina Tessitore, docente di marketing all’Institut d’économie scientifique et de gestion – IÉSEG School of Management di Lilla, in Francia. Eppure, in questo caso, si tratta solo di stereotipi sbagliati, alimentati da pubblicità in cui il junk food è sinonimo di convivialità e di moda, mentre gli alimenti più sani non lo sono (in Italia, in realtà, la situazione è un po’ diversa, e negli ultimi anni il marketing ha iniziato a valorizzare molto il cibo sostenibile e sano, ndr). A tutto ciò, naturalmente, contribuiscono gli algoritmi che, una volta intercettato un potenziale cliente, fanno di tutto per indirizzare le sue preferenze verso i prodotti sostenuti dal marketing.
Un altro fattore importante è la compagnia: se persone conosciute postano spesso piatti e in generale cibo, si è portati a imitarli, per senso di appartenenza a una comunità, e a modificare le proprie idee in base a ciò che dicono e fanno gli ‘amici’. Così, come è emerso in diversi studi, se i conoscenti postano foto e frasi sul fast food con commenti positivi, si sarà più propensi a considerare questi ristoranti positivamente e a frequentarli di più. Secondo Patricia Cavazos, psichiatra della Washington University, gli influencer svolgono lo stesso ruolo della pubblicità: suggestionano e indirizzano, facendo percepire come positivo, desiderabile e importante ciò che desiderano mettere in evidenza, a prescindere dal suo valore reale. Va poi sempre tenuto presente che le persone più fragili possono essere trascinate in disturbi del comportamento alimentare quali l’anoressia o la bulimia, sottolinea ancora Cavazos.
Ciò che si decide di mangiare è, in definitiva, dipende da una serie di influenze tra i quali il contenuto nutrizionale e il costo del cibo, l’idea del proprio corpo, le interazioni sociali, la possibilità di cucinare o di acquistare alimenti: non esiste quindi una relazione lineare tra i post sui social e ciò che si mangia, e mancano studi effettuati nella vita reale per tracciare un quadro più definito. A ciò si deve poi aggiungere la sensibilità individuale ai social, secondo Melissa Atkinson, psicologa dell’Università di Bath. Le persone che si lasciano influenzare di più, lo fanno a prescindere dal contenuto dei post, mentre chi ha maggiori strumenti di difesa, è anche meno disposto a modificare le proprie abitudini.
Certo è, sottolinea Tessitore, che bisognerebbe sfruttare i meccanismi piscologici noti per promuovere gli alimenti più sani, per esempio rappresentandoli come cibi alla moda, aumentando le situazioni di convivialità in cui gli amici siedono attorno a un piatto di verdure cucinate in modo che risultino attraenti, ma siamo ben lontani da riuscire a farlo in maniera efficace.
Un altro strumento molto efficace è la consapevolezza, come fa notare da ultimo Ethan Pancer, docente di marketing della Saint Mary’s University di Halifax, in Canada, e autore di studi che lo dimostrano: quando le persone sono consapevoli che la loro attrazione verso il junk food ha profonde radici biologiche adeguatamente sfruttate dalla pubblicità, il desiderio si sgonfia e la razionalità prende il sopravvento, aiutando a fare scelte migliori.
In realtà, concludono diversi degli intervistati, bisogna tenere presente la possibilità di essere condizionati dai social, ma non esagerare con l’idea che le azioni siano dettate da questo: la stimolazione più forte resta quella reale, vedere un cibo nella realtà ha effetti molto più marcati rispetto ad ammirarne la fotografia, e può costituire un incoraggiamento molto più potente a mangiare o meno un certo cibo rispetto a quello che arriva dai social.
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Giornalista scientifica
Mangiare cibo sano forse sarà più noioso, ma farà sentire il nostro corpo più in forma e conseguentemente ci farà vedere più belle, condizionando così anche la propria autostima è il proprio umore..
“negli ultimi anni il marketing ha iniziato a valorizzare molto il cibo sostenibile e sano”
O piuttosto si è buttato sul gigantesco business che c’è, ancora non sfruttato a fondo, dietro al “greenwashing” che propone come miracolose diete restrittive e insensate, cibi dai nomi accattivanti che scimmiottano quelli veri, dozzine di “senza questo senza quello” che sfruttano presunti legami con allergie, obesità, deforestazione e inquinamento e generano “appartenenza”?
Diciamocelo con franchezza, da sempre noi umani mangiamo per necessità ciò che abbiamo, ma appena il nostro status migliora ci fiondiamo su cibi più soddisfacenti e normalmente riservati a classi più abbienti, ed è quindi facile creare un corto circuito logico tra “questo lo mangia l’attore X” e “se lo mangi tu sei come lui” molto efficace verso i consumatori frettolosi e impreparati che prima dalla tv e poi dai social “imparano” ciò che si deve mangiare per essere “fighi” e “alla moda”.
Se ci aggiungiamo che per motivi logistici e di orario si mangia spesso fuori casa, e a casa si cucina poco, e di fretta, e spesso cibi banali, è facile che specialmente giovani e giovanissimi siano indotti a mangiare a casaccio, oggi il junk food perché lo esalta uno, domani lo pseudoburger di soia perché lo esalta un altro, mancando completamente delle basi per una scelta competente, in questo non aiutati dalla scuola che in mensa segue le mode del momento e per i budget risicati propone scelte spesso poco appetibili, per non parlare della diseducazione aggiuntiva che dà servendoli in piatti e stoviglie usa-e-getta.
Il consumatore medio vuole essere influenzato per sentirsi simile all’influencer di turno, che ha un QI da prefisso telefonico e inciampa nei congiuntivi ma ha millantamilamilioni di follower, e come recita il proverbio, se milioni di mosche mangiano m***a, sicuramente hanno ragione loro.
Quindi si merita tutto ciò che gli succede, dallo sborsare euro buoni per superfood farlocchi, seguire diete cervellotiche e squilibrate, fidarsi dell bollino verde senza leggere gli 82 ingredienti della pietanza che a casa farebbe con 6, ingurgitare costosi integratori che eliminerà con le orine poche ore dopo… è il marketing, bellezza!