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La predisposizione genetica rappresenta il fattore di rischio principale per la malattia

Lo studio clinico europeo PreventCD, coordinato da Luisa Mearin dell’Università di Leida, ha preso in considerazione 944 lattanti ad alto rischio celiachia, sia perché avevano un parente di primo grado con la malattia, sia per il loro profilo genetico. In corrispondenza della regione HLA, infatti, i bambini presentavano almeno una delle varianti associate alla malattia (DQ2 e DQ8): varianti che conferiscono una probabilità più elevata del normale di sviluppare l’intolleranza, anche se da sole non bastano a determinarla. I piccoli sono stati suddivisi in due gruppi: tra i 4 e i 6 mesi di vita, alcuni hanno ricevuto 100 mg al giorno di glutine (una quantità inferiore a quella introdotta di solito con lo svezzamento, ma considerata attiva dal punto di vista immunologico), mentre altri hanno ricevuto un placebo.

 

Quando hanno raggiunto i 3 anni di età, i ricercatori sono andati a vedere quanti avevano sviluppato celiachia, verificando che non c’erano differenze significative tra i due gruppi: 5,9% di diagnosi tra i bambini che avevano ricevuto il glutine e 4,7% tra gli altri. Non solo: Mearin e colleghi hanno anche verificato che cosa succede mantenendo o meno l’allattamento al seno durante l’introduzione del glutine. Molti medici, infatti, suggeriscono di non interrompere l’allattamento quando comincia lo svezzamento proprio per ridurre il rischio di celiachia. Anche in questo caso, però, nessuna conferma: per quanto importante per molti altri aspetti, il latte di mamma non sembra proteggere dall’intolleranza.

 

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Chi non ha predisposizione genetica può introdurre il glutine già a partire dai sei mesi

Risultati analoghi vengono dallo studio italiano Celiprev, sostenuto dalla Fondazione celiachia e coordinato da Carlo Catassi, del Dipartimento di pediatria dell’Università politecnica delle Marche. Anche in questo caso i partecipanti, 553 in tutto, sono stati suddivisi in due gruppi: metà ha seguito un normale svezzamento a 6 mesi, mentre l’altra metà ha assaggiato il glutine solo a 12 mesi. Di nuovo, si trattava di bambini a rischio per la presenza di un parente di primo grado con celiachia e alcuni avevano anche le varianti genetiche “incriminate”, DQ2 o DQ8. Questa volta, i ricercatori hanno verificato la presenza di celiachia a 2, 5 e 10 anni, scoprendo alcuni fatti interessanti. A due anni, l’intolleranza era più frequente nei bambini in cui il glutine era stato introdotto prima (12% dei piccoli, contro il 5% di quelli che avevano cominciato a mangiarlo solo a 12 mesi). A cinque anni, l’incidenza si era livellata (16% dei bambini in entrambi i gruppi). Infine a 10 anni l’intolleranza era più frequente per i piccoli con il profilo genetico ad alto rischio (26%, contro il 16% dei bambini che non avevano le varianti di predisposizione). «Significa che la predisposizione genetica rappresenta il fattore di rischio principale per la malattia, mentre il momento di introduzione del glutine non ha conseguenze a lungo termine» spiega Catassi. In altre parole: se uno deve sviluppare la celiachia, lo fa indipendentemente dal fatto che abbia assaggiato il glutine presto o tardi. C’è però un effetto parzialmente protettivo dell’introduzione tardiva, dopo l’anno di età, che sembra rallentare la comparsa dei sintomi. E questo naturalmente è un bene, perché evita che la celiachia interferisca con i processi di sviluppo dei piccoli.

 

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Per i bambini con parenti celiaci sarebbe utile poter effettuare uno screening di rischio

Per concludere, allora, che cosa dovrebbero fare i genitori alle prese con lo svezzamento del bambino? «Se non ci sono rischi particolari, consigliamo di introdurre il glutine secondo le classiche tradizioni alimentari, cioè in genere intorno ai sei mesi, senza troppe ansie» consiglia Catassi. Nei bambini ad alto rischio, invece, potrebbe avere senso uno svezzamento tardivo. «Per il momento, però, è ancora presto per una raccomandazione ufficiale: servono altre conferme» precisa l’esperto. E in ogni caso, lo ripetiamo, la misura servirebbe solo per i bambini nei quali è effettivamente confermato il rischio elevato, sulla base di un’analisi genetica dei geni della regione HLA. «Potrebbe essere utile uno screening di rischio, che si baserebbe su un semplice prelievo di sangue e che potrebbe essere aggiunto a quelli che già vengono svolti nei neonati, a pochi giorni di vita» sottolinea Catassi. «Naturalmente non per tutti, ma solo per quei bambini che hanno già un rischio familiare».

Valentina Murelli

© Riproduzione riservata

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Mauro Damiani
Mauro Damiani
2 Novembre 2014 20:31

ma cerchiamo di essere seri, ai bambini cereali non prima de due anni.

ezio
ezio
6 Novembre 2014 17:28

Lavoro interessante, conclusione contradditoria che non tiene conto delle uniche osservazioni utili dello studio, cioé l’introduzione tardiva del glutine come fattore positivo.
Non serve essere troppo scientifici per concludere che gli allergeni, ed il glutine è un’allergene, andrebbe inserito gradualmente solo dopo il completo sviluppo del sistema immunitario(tre anni).
Questo in particolare per quelli geneticamente predisposti, ma vale precauzionalmente per tutti, visto che l’esame specifico lo fanno solo in pochi e forse dopo la presenza dei primi sintomi del problema, a danno già fatto.