Durante l’anno appena trascorso i consumi degli italiani sono stati fortemente influenzati dai periodi di lockdown: mentre i carrelli si riempivano di scorte alimentari, mense, bar e ristoranti si fermavano. Un’analisi di Ismea mostra come sia stata colpita la filiera delle carni bovine: se è vero che sono aumentati i consumi domestici di carne, questo ha interessato in particolare le carni avicole – pollo e tacchino hanno registrato un +10,7% in valore – e suine (+ 15% ), mentre i bovini hanno mostrato una crescita limitata al 6,4%.
Insomma, per pollo e maiale sono aumentati sia gli acquisti che i prezzi, mentre i bovini si sono mostrati molto meno redditizi. Questo andamento è in parte legato al fatto che le importazioni di bovini a prezzo competitivo dalla Spagna e dalla Polonia hanno mantenuto bassi i prezzi. Ma è dovuto anche alla preferenza degli italiani per il bovino adulto rispetto al più costoso vitello che ha avuto un vero e proprio crollo in concomitanza con la chiusura della ristorazione. Allo stesso tempo bisogna notare che una carne di pregio come la scottona – carne di bovino femmina che non ha mai partorito, macellata fra i 15 ed i 22 mesi – pur rimanendo un prodotto di nicchia, in questo quadro di crisi continua a crescere con un incremento del 24% in valore. Pare quindi di poter individuare alcune tendenze: una certa disaffezione verso la carne rossa correlata forse alle diverse indicazioni di effetti negativi per la salute, assieme a una sorta di forbice che porta a premiare da un lato i prodotti a prezzo più conveniente e dall’altro le “eccellenze” legate alla qualità, ai prodotti del territorio e al benessere animale.
Queste dinamiche potrebbero essere sfruttate per un progressivo spostamento verso un modello che preveda meno carne e di qualità più elevata, in linea con quanto suggerito da diversi studi internazionali. Ricordiamo l’analisi della commissione Eat-Lancet che, considerando sia l’impatto sulla salute che l’elevato impatto ambientale delle diete a base di carne, suggerisce un modello di dieta “globale” sana e sostenibile basata in prevalenza su alimenti di origine vegetale a scapito di quelli animale, con una bassa quantità di cibi ultraprocessati e di zuccheri semplici.
C’è anche il rapporto di Greenpeace “Il peso della carne” che definisce “insostenibile” il sistema agricolo-zootecnico italiano. L’impronta ecologica degli allevamenti è legata sia alla produzione diretta di gas serra a opera degli animali che alle risorse necessarie per allevarli (acqua, energia, foraggio, fertilizzanti per coltivare i foraggi…). Il settore zootecnico secondo questo studio utilizzerebbe il 39% delle risorse delle aree agricole solo per compensare le emissioni di gas serra provenienti dai capi allevati. Secondo l’associazione, inoltre, il sistema di finanziamenti previsti dalle politiche agricole continua a favorire gli allevamenti intensivi, contrariamente a quanto sarebbe necessario per una svolta ecologica.
Ma qual è la situazione nel nostro Paese? A dicembre 2019 erano censiti 2,4 milioni di bovini da carne, in 100mila allevamenti, situati prevalentemente in Piemonte, Veneto e Lombardia. D’altra parte la produzione nazionale copre solo il 55% della domanda, quindi le importazioni sono necessarie, e il principale attributo dei prodotti importati è la convenienza. Se vogliamo allontanarci da un modello produttivo che premia la quantità a basso prezzo dobbiamo considerare le eccellenze, che in Italia non mancano, come per esempio il vitellone bianco dell’Appennino centrale, tutelato da marchio Igp.
“Il marchio Igp tutela la carne di bovini di razza Chianina, Marchigiana o Romagnola, nati e allevati nell’area tipica di produzione, in allevamenti aderenti al sistema di certificazione, svezzati a latte materno e allevati secondo specifiche condizioni stabilite dal disciplinare. – Spiega Andrea Petrini, direttore del Consorzio del vitellone bianco dell’Appennino centrale – Si tratta prevalentemente di animali allevati per diversi mesi al pascolo, in piccole aziende distribuite in un territorio marginale come quello dell’Appennino centrale. Il disciplinare norma ogni fase della filiera, dalle caratteristiche dei foraggi (esclusivamente di produzione locale) alle modalità di lavorazione e alla vendita della carne. (leggi qui). Il marchio è riconosciuto dal 1998 ed è stato richiesto dai produttori per tutelare un prodotto tradizionale del territorio. – Continua Petrini – Questo tipo di allevamento, prevalentemente estensivo, è molto più costoso dell’allevamento intensivo basato su grandi numeri, ma garantisce una diversa qualità delle carni che dipende per il 50% circa dalla razza dell’animale e per il restante 50% dalle condizioni di allevamento e lavorazione. Quando si parla di Chianina, per esempio, si indica solo una razza, ma può anche essere importata da qualsiasi parte del mondo. È solo attraverso il marchio Igp Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale che si certifica lo stretto legame tra la razza e il territorio, la tradizione e le modalità tipiche di allevamento e di alimentazione. Non dimentichiamo poi anche l’aspetto sociale svolto dagli allevamenti estensivi legati soprattutto alle zone marginali: dove ci sono gli allevamenti, c’è una presenza umana che si prende cura del territorio e contrasta i problemi legati all’abbandono, come il dissesto idrogeologico.”
Dove si trova questa carne? Come viene distribuita?
“Inizialmente il prodotto era prevalentemente indirizzato alle macellerie tradizionali – racconta Petrini – poi è aumentato anche l’interesse delle catene di supermercati. Oggi, la ristorazione e le mense scolastiche assorbono una fetta significativa della produzione. Possiamo dire che si tratta di una nicchia consolidata, molto importante per il territorio: la carne a marchio Vitellone bianco dell’Appennino centrale rappresenta poco più dell’1% delle macellazioni di bovini che hanno luogo in Italia ogni anno, ma raccoglie quasi il 90% dei bovini delle tre razze tipiche, allevati nel Centro-Sud Italia.”
Nei banchi frigo dei supermercati si trova carne di ogni tipo, con prezzi molto diversi. L’etichetta deve riportare informazioni relative al luogo di nascita, allevamento e macellazione, ma purtroppo non sono presenti indicazioni chiare sulle modalità di allevamento. Per avere un’idea, prendiamo come esempio due tipi di tagliata di bovino che troviamo nei supermercati Coop, in entrambi i casi si tratta di tagli “di qualità”.
La tagliata di bovino adulto a marchio Origine-Coop (sopra) è prodotta con carne di animali che possono essere nati, allevati e lavorati in Italia, Francia o Irlanda e costa 17,90 €/kg.
La tagliata di razza Chianina Vitellone bianco dell’Appennino centrale Igp, prodotta nella zona tipica, in base al disciplinare di cui abbiamo parlato, e corredata di etichetta e QR code esplicativo, costa 32,80 €/kg.
Petrini fa notare che, anche se la denominazione commerciale è in entrambi i casi “tagliata” si tratta di prodotti diversi: quello a marchio Coop-Origine è ricavato da noce o scamone, mentre l’altro proviene da un controfiletto, tagli che hanno costi di partenza differenti (almeno 30-40%). È evidente che i fattori in grado di influenzare il prezzo sono numerosi, e non sempre chiari per i consumatori. Le etichette non dicono tutto, in ogni caso è importante informarsi e leggerle con attenzione, perché la scelta spetta a noi.
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Giornalista pubblicista, laureata in Scienze biologiche e in Scienze naturali. Dopo la laurea, ha collaborato per alcuni anni con l’Università di Bologna e con il CNR, per ricerche nell’ambito dell’ecologia marina. Dal 1990 al 2017 si è occupata della stesura di testi parascolastici di argomento chimico-biologico per Alpha Test. Ha collaborato per diversi anni con il Corriere della Sera. Dal 2016 collabora con Il Fatto Alimentare. Da sempre interessata ai temi legati ad ambiente e sostenibilità, da alcuni anni si occupa in particolare di alimentazione: dalle etichette alle filiere produttive, agli aspetti nutrizionali.