Negli Stati Uniti, il contagio che si è verificato durante la prima ondata della pandemia nei macelli e in generale negli impianti di lavorazione della carne è costato caro: oltre 330 mila casi e più di 11 miliardi di dollari di perdite economiche. La situazione è migliorata negli ultimi mesi, ma molto resta da fare. Si conferma così quanto visto anche in altri Paesi: i luoghi in cui si lavorano le carni sono particolarmente a rischio, per diversi motivi.
Questi i numeri contenuti in uno studio pubblicato su Food Policy, nel quale i ricercatori dell’Università della California di Davis hanno calcolato che, entro i primi 150 giorni dalla dichiarazione della presenza di Sars-CoV-2 in una contea con uno stabilimento di macellazione e trattamento delle carni bovine, i suoi abitanti avevano, in media, il 110% in più di probabilità di ammalarsi rispetto alla popolazione di contee paragonabili, ma senza industrie della carne, cioè un rischio più che doppio. Lo stesso andamento si verificava per le aziende di lavorazione della carne suina, cui era associato un aumento del 160%. Con il pollame, invece, l’incremento del rischio è risultato minore, e pari a un +20%.
L’indagine ha riguardato solo grandi impianti, dove si lavorano almeno 4.500 tonnellate di carne al mese, ma il risultato è quasi certamente una stima per difetto, perché si pensa che ci siano molti lavoratori in nero la cui malattia non è stata denunciata, oltre agli asintomatici mai scoperti. Anche dal punto di vista economico, i numeri sono probabilmente peggiori, perché non si è tenuto conto dei costi sanitari sostenuti da chi si è ammalato.
Ben note, invece, le condizioni che amplificano il rischio in questi ambienti: presenza di numerosi lavoratori in locali molto rumorosi (fatto che costringe a urlare per comunicare e, quindi, a emettere molte droplet), temperatura bassa (quindi favorevole al mantenimento della vitalità del virus), livelli di umidità minimi, aerazione e ricambio d’aria insufficiente, superfici metalliche lavate con acqua (la quale, a sua volta, funziona da vettore, in quelle condizioni). Contribuiscono anche promiscuità negli alloggi spesso sovraffollati, assistenza sanitaria e controlli insufficienti, misure precauzionali spesso carenti quando non del tutto assenti. Via via che la pandemia veniva riconosciuta come tale, comunque, anche gli stabilimenti statunitensi si sono almeno in parte adeguati ai protocolli di sicurezza e la situazione è migliorata.
Nel Paese il settore occupa oltre 500 mila addetti, rappresenta il 30% dell’industria alimentare ed è organizzato attorno a 39 grandi impianti per la lavorazione della carne bovina, 31 per quella suina e 139 per il pollame. La speranza è che quanto accaduto sia un’occasione per ripensare tutto il sistema, a cominciare proprio dai mega impianti, che sembrano sempre più destinati a diventare meno centrali di oggi per molti motivi, non ultimo dei quali il rischio sanitario.
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Giornalista scientifica
Senza andare troppo lontano anche in molti macelli europei ci sono state diverse trasmissioni e infezioni di Covid 19 tra coloro che lavoravano la carne . Questa è la dimostrazione palese di come questi orribili luoghi risultino altamente pericolosi per la trasmissione del Covid.tra esseri umani. E il virus, con le sue molteplici varianti, continua a viaggiare felicemente da un continente all ‘altro.. …
mah…a me sembra uno studio fatto alla carlona.