Nel 2018 il giro d’affari legato alle uova da galline allevate a terra è cresciuto del 24% rispetto all’anno precedente, per arrivare a 400 milioni di euro, mentre il fatturato di quelle da allevamento in gabbia è sceso di 18 milioni di euro. Nel 2008 Coop è stata la prima catena di supermercati a escludere le galline in batteria per le proprie uova a marchio. Scelta per la quale ha ricevuto il premio Good Egg per il benessere animale, ma che soprattutto è stata premiata dai consumatori e imitata da quasi tutte le altre catene, tanto che adesso sugli scaffali le uova da galline in gabbia sono una minoranza. Ciò non significa che siano spariti gli allevamenti di questo tipo, perché le uova di categoria 3, più economiche, sono ancora utilizzate nella grande maggioranza dei prodotti industriali.
Comunque, si è verificato un cambiamento importante, grazie al fatto che i consumatori sono sempre più sensibili al tema del benessere animale, e – almeno fino a un certo punto – sono disposti a pagare di più. L’interesse dei consumatori, e la disponibilità alla spesa, hanno indotto i produttori e le catene di supermercati a dedicare una maggiore attenzione al benessere animale. Ecco perché negli ultimi anni sono comparsi, sulla carne confezionata di pollo, bovino e maiale, ma anche sul latte e sulle uova, diciture sul benessere animale. Spesso però non è chiaro a cosa facciano riferimento queste affermazioni, e può capitare – come è accaduto per i conigli “allevati a terra” (di cui abbiamo parlato in questo articolo sul coniglio Aia) – che le dichiarazioni sulla confezione suggeriscano situazioni ben diverse dalla realtà.
Il benessere animale in allevamento
Le modalità con cui gli animali devono essere allevati sono normate a livello generale da una direttiva europea, recepita dalla nostra legislazione con il D.Lgs. 146 del 2001 che garantisce un livello “minimo” di benessere: nutrimento, riparo dal freddo, assenza di mutilazioni e di altre sofferenze. Esistono inoltre norme specifiche per le diverse specie “Ma anche queste – dice Federica di Leonardo, di Ciwf Italia Onlus – spesso garantiscono solo requisiti minimi. Per esempio una norma, come quella sui polli, che permette di allevarli con una densità che può arrivare a 21 capi per metro quadrato, non può garantire il benessere per questi animali”.
Le tristi condizioni di vita in cui non di rado versano gli animali da allevamento, rivelate in questi anni da diverse inchieste, hanno mosso le coscienze dei consumatori che hanno iniziato a cercare garanzie su ciò che acquistano. Garanzie che possono essere fornite solamente dalla definizione di norme precise e dalla certezza che gli enti preposti ne verifichino il rispetto.
Il metodo di valutazione del CReNBA
Il CReNBA (Centro di referenza nazionale per il benessere animale), struttura che fa parte dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna, ha elaborato un metodo per valutare il benessere dei bovini da carne e da latte. È un sistema di valutazione, approvato dal Ministero delle politiche agricole, alimentari, forestali e del turismo, basato su “check-list”, elenchi di parametri per valutare tutti gli aspetti che in un allevamento condizionano il benessere animale: dall’organizzazione aziendale alla struttura degli ambienti, ma anche presenza di patologie, pulizia, comportamenti aggressivi o tendenza a fuggire dall’uomo. Ogni voce corrisponde a un punteggio, e – come a scuola – il “diploma” viene attribuito a chi raggiunge almeno il 60%.
Solo chi ottiene questa certificazione può vantare sulla confezione condizioni di “benessere animale”. È importante però notare che le check-list derivano dall’esperienza veterinaria e sono state approvate dal Ministero ma non sono correlate a una specifica normativa.
L’etichetta sul benessere animale
“Questo documento ha un limite intrinseco – fa notare di Leonardo – perché non tiene in giusta considerazione e non permette di distinguere le tipologie di allevamento. Per le vacche da latte il disciplinare prevede due diverse check-list: una per le stalle a stabulazione fissa, dove la bovine vivono tutta la vita legate in uno spazio ridotto, e l’altra per le stalle a stabulazione libera, dove possono muoversi e in alcuni casi avere accesso al pascolo. Il claim “benessere” animale sull’etichetta non tiene però conto del metodo di allevamento (al pascolo, a stabulazione libera o fissa) quindi il consumatore non potrà sapere come ha vissuto il bovino da cui derivano i prodotti che acquista.”
“Il pascolo è un fattore fondamentale per il pieno benessere dei bovini – continua di Leonardo – e purtroppo nel nostro Paese viene negato al 99% di questi animali. Più che una valutazione del benessere degli animali allevati, il protocollo del CReNBA si può considerare un buono strumento per monitorare lo stato effettivo di una stalla. Il disciplinare della produzione biologica, d’altra parte, prevede l’accesso al pascolo, spesso però prevalgono interpretazioni flessibili della normativa e nemmeno questa certificazione lo garantisce. La soluzione più corretta e “trasparente” – sottolinea di Leonardo – sarebbe un’etichettatura volontaria in base al metodo di allevamento, e il rispetto del disciplinare biologico, per cui un’etichetta esiste già”.
Mancano le norme di riferimento
Per far questo però mancano le norme di riferimento. Infatti una norma specifica esiste solo per alcuni settori, come il pollo da carne, la gallina ovaiola, il suino e il vitello da latte, mentre non esiste per i bovini – né da carne né da latte – né per il coniglio, né per alcune specie avicole.
I consumatori possono scegliere uova di galline allevate con diversi metodi, perché in questo caso le norme sono chiare e a ogni tipo di allevamento (biologico, all’aperto, a terra oppure in gabbia) corrisponde un diverso codice sulle uova. La stessa cosa dovrebbe accadere per il suino, il bovino o per il latte, per rendere i consumatori in grado di distinguere un prodotto dall’altro.
La mutilazione della coda del suino, per esempio, è proibita dalla normativa comunitaria come intervento routinario, ma è una pratica ancora molto diffusa (in Italia come in altri Stati membri) e solo recentemente gli allevatori si stanno attivando per eliminare questa consuetudine. I suini sono animali intelligenti, hanno bisogno di un ambiente stimolante e vario; quando si trovano in condizioni di sovraffollamento, e non possono mettere in atto i comportamenti naturali, diventano aggressivi e arrivano a mordersi.
Per eliminare il taglio della coda, limitando al contempo l’aggressività, è necessario modificare gli allevamenti in modo da renderli adeguati al benessere dei suini; inoltre gli allevatori devono essere consapevoli della problematica e correttamente formati. Questo non si può realizzare da un giorno all’altro ma richiede tempo e investimenti, e la carne dei suini allevati in questo modo ha un prezzo finale più elevato. Comunque ci sono aziende che ci stanno provando – e riuscendo – come la comasca Fumagalli (qui un video).
Gli antibiotici
Oltre alle generiche dichiarazioni sul benessere, sulle confezioni di pollo, bovino o suino, oppure sulle uova, possiamo trovare scritte relative all’assenza di antibiotici. La comparsa di ceppi batterici resistenti agli antibiotici – considerata uno dei più gravi problemi sanitari del nostro tempo – è in gran parte dovuta all’abuso e all’uso errato di questi farmaci, sia nell’essere umano sia negli animali.
L’utilizzo degli antibiotici per accelerare la crescita degli animali negli allevamenti è proibito in Europa dal 2006. In alcune tipologie produttive, tuttavia, tuttora è prassi effettuare trattamenti di massa, infatti quando in un allevamento alcuni animali si ammalano, spesso vengono trattati tutti gli animali presenti e non solo a quelli colpiti (si parla di metafilassi). Queste procedure favoriscono la comparsa di batteri resistenti che possono essere trasmessi all’uomo attraverso la carne, l’ambiente, o per contatto diretto con gli animali. Risale a pochi mesi fa l’approvazione da parte del Parlamento europeo di una risoluzione sull’impiego dei farmaci veterinari in zootecnia.
I disciplinari antibiotic free
Attualmente la carne e le uova etichettate come antibiotic free, provengono da animali che non sono stati trattati con questi farmaci, per tutta la loro vita o solo per una parte. La dicitura è definita da specifici disciplinari, controllati da enti certificatori italiani che da anni seguono questi aspetti come il Ccpb e il Csqa.
Il disciplinare del Csqa prevede che la scritta “allevato senza antibiotici” sia utilizzato solo quando gli animali non hanno subito trattamenti antibiotici per tutto il ciclo di vita (a partire dalla nascita). Quando nei suini e nei bovini l’assenza di trattamenti è limitata agli ultimi quattro mesi di vita, bisogna scrivere in modo chiaro sull’etichetta “allevamento senza antibiotici negli ultimi 4 mesi”. Al riguardo, è molto più probabile che il trattamento con antibiotici sia necessario nel periodo dello svezzamento rispetto all’ultimo periodo di vita prima della macellazione. I polli invece, anche per il fatto che hanno una vita più breve, possono essere allevati senza antibiotici anche per l’intero ciclo produttivo (ne abbiamo parlato in questo articolo sul pollo campese)
Antibiotici e benessere animale
Il consumatore percepisce la dicitura “senza antibiotici” come un indice di maggiore benessere per gli animali, ma in realtà non è necessariamente così. Riuscire ad allevare senza antibiotici è complicato perché non si tratta di un risultato occasionale ma di un progetto dove entrano in gioco molteplici fattori, a cominciare dalla scelta dei riproduttori che devono avere un’ottima salute. È altresì importante crescere gli animali in ambienti puliti garantendo un ricambio costante della lettiera, spazi adeguati e condizioni climatiche e ambientali ottimali. Ciò non toglie che quando anche pur vivendo in condizioni ottimali gli animali si ammalano, gli antibiotici possono essere necessari per curare la patologia. Un approccio corretto dovrebbe quindi prevedere l’uso responsabile di questi farmaci, evitando quelli più critici, perché importanti per la salute umana.
“Cercare di evitarli a tutti i costi – sostiene di Leonardo – per ottenere il maggiore guadagno garantito dalla carne antibiotic free provoca sofferenze e di conseguenza compromette il benessere animale. Piuttosto che di antibiotic free bisognerebbe parlare nel complesso di benessere animale nelle diverse modalità di allevamento, indicate in etichetta*”.
(*) Nota
Il Ciwf insieme a Legambiente ha lanciato una petizione al Ministero della salute e a quello dell’ambiente, perché sia avviato un processo di revisione della normativa e di definizione dei criteri di allevamento.
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Giornalista pubblicista, laureata in Scienze biologiche e in Scienze naturali. Dopo la laurea, ha collaborato per alcuni anni con l’Università di Bologna e con il CNR, per ricerche nell’ambito dell’ecologia marina. Dal 1990 al 2017 si è occupata della stesura di testi parascolastici di argomento chimico-biologico per Alpha Test. Ha collaborato per diversi anni con il Corriere della Sera. Dal 2016 collabora con Il Fatto Alimentare. Da sempre interessata ai temi legati ad ambiente e sostenibilità, da alcuni anni si occupa in particolare di alimentazione: dalle etichette alle filiere produttive, agli aspetti nutrizionali.
Ottimo articolo ed approfondimento del tema.
La qualità e la sicurezza sono investimenti produttivi che rendono margini operativi e valore imprenditoriale e non solo, perché gli operatori che valgono operano in modo corretto, qualitativamente elevato ed in sicurezza per l’ambiente produttivo degli addetti e degli animali.
Chi maltratta oggettivamente gli animali allevati con pratiche invasive e dannose per la loro salute e benessere, come può sentirsi gratificato e persona di valore se squalifica e svaluta l’oggetto del proprio operare, imprenditore, veterinario, responsabile o addetto che sia?
Sia chiaro che gli ispettori responsabili del “Controllo Veterinario Ufficiale” presso gli allevamenti e i siti produttivi di trasformazione DEVONO entrare nel merito dei trattamenti praticati dagli allevatori in relazione alle caratteristiche di vendita, etichette , fatture e documenti di consegna materie prime comprese del prodotto commercializzato ed utilizzato, anche attraverso puntuale verifica, non solo cartacea, ma oggettiva dei “piani di autocontrollo e di gestione del rischio obbligatori” messi in atto dagli operatori del settore alimentare secondo i rispettivi Regolamenti CEE.