È il latte il vettore del virus dell’influenza aviaria H5N1 ad alta patogenicità (HPAI) che, dall’inizio di marzo, ha già colpito 80 allevamenti in dieci Stati americani. E se da una parte questa è una buona notizia, perché il virus che sta circolando sembra non essere molto efficiente nella trasmissione aerea, dall’altra non lo è, perché H5N1 è bravissimo nella trasmissione per contatto diretto come quello che può avvenire, appunto, con il latte. E ciò comporta ricadute economiche sull’intera filiera lattiero-casearia, e probabilmente l’impossibilità – secondo diversi esperti – di fermare l’avanzata dell’aviaria.
Intanto, cresce il numero di bovini morti a causa dell’influenza o di un’infezione secondaria, oppure abbattuti perché non mostravano segni di recupero. E aumenta la preoccupazione per ciò che potrebbe accadere agli esseri umani.
Il virus dell’influenza aviaria e il latte
Come era stato suggerito qualche settimana fa, il materiale biologico più a rischio sembra essere il latte, perché il tessuto mammario delle vacche contiene elevati livelli di recettori per il virus, ed è lì che si concentrano le particelle virali. Negli ultimi giorni due nuovi studi, per ora pubblicati sulle piattaforme BioRXiv e MedRXiv e ancora in attesa di revisione, hanno mostrato che il latte che esce dalle mammelle degli animali infetti, ovviamente non pastorizzato, contiene quantità di virus che i ricercatori hanno definito “astronomiche”, e superiori a quelle che si riescono a ottenere in condizioni ideali in laboratorio.
Alcuni campioni analizzati contenevano centinaia di milioni di copie del virus. Questo, tra l’altro, potrebbe spiegare perché un campione di latte pastorizzato in vendita su cinque avrebbe tracce di materiali genetici di H5N1, rimaste dopo la pastorizzazione: quando la carica virale è così alta, è virtualmente impossibile eliminare qualunque residuo.
Allevamenti e igiene
Ma c’è di più, come ricorda Nature in un articolo che fa il punto sul legame tra H5N1 e latte vaccino. Il problema non riguarda tanto il latte che arriva ai consumatori, per il quale la pastorizzazione dovrebbe essere sufficiente. Piuttosto, interessa gli allevamenti, perché il latte fuoriesce sempre disperdendosi sul pavimento e altrove, anche con i dispositivi di mungitura automatica, e il virus, sulle superfici, resta vitale anche per molte ore. Inoltre, le fattorie non possono fare pause preventive, perché le vacche vanno munte regolarmente. Dove vivono le bovine, poi, ci sono quasi sempre altri animali, e il rischio che il latte infetto funzioni da vettore per ulteriori trasferimenti e salti di specie non è affatto irrilevante. Un caso di questo tipo si è avuto nei giorni scorsi con l’infezione di alcuni alpaca in un allevamento in cui erano presenti anche bovini da latte malati.
Per il momento, contenere l’epidemia sarebbe possibile. Basterebbe disinfettare tutta l’attrezzatura prima di ogni mungitura, istallare opportuni sistemi di ventilazione e pulizia, verificare ogni lotto di latte prima che sia inviato agli stabilimenti per la lavorazione, disinfettare i mezzi di trasporto, far indossare sempre, a tutti i lavoratori, dispositivi di protezione come guanti, mascherine e calzari e così via. Ma, nei fatti, è irrealistico aspettarsi che tutti gli allevatori abbiano il denaro necessario per modificare le procedure, e che tutti rispettino le indicazioni.
I decessi tra gli animali
Una motivazione a impegnarsi di più nella lotta all’aviaria potrebbe essere però quella economica, perché, da quanto si inizia a vedere, iniziano a esserci le prime perdite di bovini da latte. E le vacche da latte sono animali assai più preziosi, dal punto di vista economico, rispetto a polli e tacchini, sacrificati a decine di milioni negli anni scorsi in tutto il mondo, proprio per cercare di contenere l’aviaria. Anche se non ci sono ancora numeri ufficiali, le bovine morte sarebbero decine, in almeno cinque dei dieci Stati colpiti. Lo afferma la Reuters, in un’inchiesta esclusiva nella quale ha ricostruito le diverse situazioni statali in base a ciò che stanno riferendo le autorità locali.
Così, per esempio, in una fattoria del Michigan, il mancato recupero della lattazione avrebbe causato la soppressione del 10% degli oltre 200 animali malati, mentre in una del South Dakota quella di una dozzina di capi, e lo stesso sarebbe successo anche in Colorado e New Mexico. Sempre in South Dakota e in Texas decine di bovini sarebbero morti, invece, per infezioni secondarie. Poco chiaro, al momento, il numero di quelli deceduti per le conseguenze dirette dell’infezione. Ma l’impressione è che quella che sembrava una forma che si manifestava soprattutto con un arrossamento relativamente innocuo delle mammelle, inizi a fare più paura, se non altro per il danno economico che comporta.
I rischi per l’essere umano
Per quanto riguarda i rischi per le persone, anche se per il momento i tre lavoratori infettati hanno avuto solo una congiuntivite, l’allerta è alta, soprattutto dopo un caso ancora poco chiaro registrato in Australia e un decesso avvenuto in Messico. Il caso australiano si è verificato in un bambino di ritorno da Kolkata, in India. Il piccolo paziente è rimasto ricoverato per due giorni, e il ceppo da cui era stato colpito era H5N1 della varietà che circola in Asia, ma non si sa ancora come sia avvenuto il contagio perché, apparentemente, non c’è stato un contatto con animali malati.
Nel caso messicano il virus era di un ceppo diverso (H5N2) e le autorità hanno in seguito smentito che la causa del decesso sia stata l’aviaria, perché l’uomo aveva gravi problemi di salute.
Tuttavia, quanto accaduto ha ricordato i rischi potenziali: negli anni scorsi, la mortalità associata all’aviaria negli esseri umani è stata del 50% e il rischio di salto di specie all’uomo si è sempre paventato. Negli ultimi giorni, poi, un altro studio, condotto dai ricercatori degli U.S. Centers for Disease Control and Prevention (CDC), ha ulteriormente destato preoccupazione. Gli Esperti del CDC hanno studiato l’infettività di H5N1 sui furetti, i modelli più utilizzati in questo genere di studi perché più simili alle persone. Nei furetti, il virus dell’aviaria rilevato in Texas, molto efficiente nel contagio diretto, meno in quello per via aerea, è stato associato a una mortalità del 100%, mentre quello della normale influenza ha fatto ammalare gli animali, ma non li ha uccisi.
Gli studi e il monitoraggio continuano.
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Giornalista scientifica