Vorrei una vostra opinione su una situazione da me osservata in un ipermercato riguardo le informazioni sugli allergeni. Premetto che ho due figlie celiache, e sono anche tecnologo alimentare, da 25 anni mi occupo di qualità per una grande azienda italiana e per alcuni anni sono stata attiva in AIC (Associazione Italiana Celiachia) a livello nazionale e ho partecipato a numerosi incontri. Per finire ho scritto diverse pubblicazioni in merito al glutine negli alimenti, partendo dalla mia passione per il settore dell’analisi degli alimenti.
Quanto osservato in questo ipermercato è stato per me sconfortante; trovo che la potenziale diffusione di un atteggiamento simile potrebbe rappresentare una sconfitta del Reg. CE 1169 e un disastro per i consumatori celiaci (e non solo per loro). Di fatto, tutta la carne preconfezionata (vassoio in polistirolo avvolto in film estensibile trasparente), dalla fettina di manzo al 1/2 pollo, dalla coscia di tacchino al pezzo di codone, così come le fette di formaggio (sempre nello stesso tipo di confezione predisposta dal punto vendita), riportano la dicitura: può contenere tracce di glutine, latte, uova… Ovvero: secondo questo supermercato il celiaco dovrebbe comprare la bistecca o la coscia di pollo in Farmacia?!
Credo che un atteggiamento di questo tipo faccia pensare e dubitare anche delle condizioni igieniche di questo ipermercato, oltre a un concetto non adeguato o non approfondito di gestione del rischio, con riferimento alla definizione seguente: “Il rischio rappresenta la probabilità che un pericolo possa manifestarsi” (Reg. CE 178/2002, art.3 com.9 “rischio”, funzione della probabilità e della gravità di un effetto nocivo per la salute, conseguente alla presenta di un pericolo).
Non farò più alcuna spesa presso questo ipermercato e cercherò di diffondere il più possibile la mia spiacevole esperienza.
Mi chiedo se anche l’AIC supporti questa impostazione allarmistica, calcando la mano sulla possibile contaminazione e mettendo costantemente in guardia le persone. Se si diffondesse il metodo di valutazione e di gestione utilizzato da alcuni ipermercati, sarebbe veramente critico acquistare qualsiasi alimento. Secondo me questa procedure non è corretta, ne sono certa. Sarei lieta di conoscere il vostro parere.
Giovanna
Risponde l’avvocato Dario Dongo
La presenza delle “sostanze o prodotti che provocano allergie o intolleranze” deve venire specificamente dichiarata sia sui prodotti alimentari in vendita al consumatore finale (siano essi imballati, sfusi o preincartati), sia in relazione a ciascun alimento e bevanda somministrato in bar e pubblici esercizi, ristoranti, mense, catering. Come precisato, tra l’altro, nella circolare 6.2.15 del Ministero della Salute.
Gli operatori del settore alimentare – come pure i distributori, e i pubblici esercenti – devono perciò garantire la sicurezza degli alimenti da essi venduti e/o distribuiti anzitutto mediante l’applicazione di buone prassi igieniche e sistemi Haccp al preciso scopo di prevenire, controllare e mitigare i rischi di contaminazione da allergeni non volontariamente impiegati nel processo.
Dichiarazioni molto generiche come quelle da Lei citate, oltre a non assolvere i requisiti di informazione prescritti (laddove si faccia riferimento al glutine anziché ai singoli cereali che lo contengono), denotano una carenza nelle procedure di autocontrollo che le Autorità sanitarie già ora dovrebbero vigilare e ove del caso sanzionare, ai sensi del d.lgs. 193/07, articolo 6.
Per ulteriori approfondimenti, vedi l’articolo: “EUROPA – Allergeni, come garantire oggi l’applicazione delle regole”
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La dicitura è generica, ma se nemmeno sanificando a fondo fra una produzione e l’altra ho modo di escludere la contaminazione,non c’è altra soluzione che indicarlo in etichetta, casomai con un’indicazione più puntuale e inequivocabile.
Detto ciò, il problema persisterà fino a che l’Italia non si doterà di un decreto sanzioni, inutile nascondersi dietro un dito, la circolare di marzo che fornisce la tabella di conversione fra legge 109/92 e reg. ce 1169/11 è inapplicabile.
Più che del decreto sanzioni c’è bisogno che la Commissione Eurpea emani i decreti attuativi necessari a dissipare le numerose zone d’ombra create dal Reg. 1169. Come solito il diavolo dimentica i coperchi.
Il problema è che per la maggior parte dei potenziali allergeni non esistono soglie e per contro i metodi di analisi sono sempre più efficaci al punto da essere in grado di individuare ad esempio 0,03 mg di allergene “pesce” o “sedano” su 1 kg.
Sfido chiunque a sostenere che tale quantità sia la conseguenza di una sanificazione non efficace.
Quindi io trovo che, proprio nell’ottica di una reale tutela degli allergici, se io mi trovassi ad utilizzare in uno stabilimento il pesce o il sedano, avrei il dovere di indicare che “il prodotto può contenere” tali sostanze in virtù del fatto che la condizione “rischio zero” non può essere soddisfatta in questo caso. Ed in virtù del fatto che non è sufficiente ridurre al minimo il rischio, proprio perchè non esistono soglie di riferimento.
Questo è un discorso generale, non vale per i cereali contenenti glutine dove le soglie ci sono nè per i solfiti, ma vale per tutte le altre sostanze elencate nel Reg Ue 1169/2011
Siamo alle solite. Io purtroppo/per fortuna la vivo dalla parte dell’azienda e mi chiedo se la dott.ssa Giovanna abbia mai lavorato in una azienda a sufficienza per valutare bene il rischio di allergeni e cross contaminazioni.
Questo per capire la sua posizione non per criticare sia ben chiaro.
Inoltre credo sia un po’ drastico pensare subito di sanzionare per mancata applicazione dell’autocontrollo.
Questo lo dico alla luce di tre principi:
– il rischio zero non esiste (pertanto un celiaco molto sensibile è un soggetto a rischio anche con le cross contamination)
– il principio di precauzione regna sovrano
– il titolare va in galera se uccide qualcuno e nel 99% dei casi l’azienda chiude.
Scusate se sono così pragmatico ma giusto per fare un esempio nella nostra azienda etichettiamo con molti elementi “cross contamination” pur consapevoli che la possibilità di ritrovarli sia infinitesima.
Domanda per tutti: se un dipendente omette per esempio di lavarsi accuratamente le mani dopo aver maneggiato un allergene, si sposta in un’altra linea produttiva e contamina il prodotto, come lo controllo?
Il consumatore sensibile a questo allergene come la prende?
Saluti
Premesso che lavoro in una Azienda alimentare:
1. Se si dimostra di aver attuato tutte le precauzioni possibili, e il piano HACCP è solido, il reato è si penale, ma non si va in galera.
2. Qui si disquisiva sull’ ingannevolezza\chiarezza di certe diciture.
3. I dipendenti devono essere formati,prendono visione del Piano HACCP aziendale e sono responsabili di azioni contrastanti con questo. Il datore di lavoro cosa può fare?
– sorvegliare su un corretto uso dei guanti monouso
-esercitare il controllo sugli accessi è il primario strumento di contenimento di queste ” bad manufactoring practice ” come anche per il danneggiamento volontario.
Lungi da me il tono polemico, premetto.
Il mio è più un disappunto perché purtroppo dal punto di vista aziendale almeno per me è molto complicato trovare la giusta soluzione.
Però mi sento di dissentire su alcuni aspetti.
In primis il reato penale è una bella grana e oltre alla possibilità di andare in galera (hai voglia a dimostrare le tue precauzioni attuate se effettivamente è morto qualcuno) c’è il discorso che se sei in GDO puoi scordarti di rientrarci (e forse chiudi).
Sull’incertezza di certe diciture direi che il “may contain” del 1169 non è difficile da tradurre! Già scrivere “tracce” è contro la legge quindi non vedo il problema.
“Sorvegliare sull’uso dei guanti monouso” mi sembra un po’ generico: io personalmente promuovo il lavaggio delle mani piuttosto che l’uso dei guanti. Lei sorveglia per esempio sul lavaggio dei guanti appena li indossano o quando passano da una mansione ad un’altra? Chi sorveglia quando escono dal WC?
Cosa intende per “controllo degli accessi”?
A livello generale ricordo sarcasticamente che tra CCP e GMP c’è un abisso e purtroppo nemmeno con i CCP azzero il rischio! Le contaminazioni crociate sono per esperienza dovute al 99% a scorrette GMP che per loro stessa natura non hanno strumenti e parametri di controllo. Ergo:
caro imprenditore, te la senti di affidarti alla valutazione del rischio e per l’appunto rischiare che il tuo prodotto finisca sul mercato potenzialmente pericoloso oppure inserisci una dicitura in etichetta che tutela te, la tua azienda E I CONSUMATORI?
A voi l’ardua sentenza.
FINE: perché i consumatori sono spesso chiusi e “non comprerò mai più in quel supermercato” invece di chiedere al responsabile qualità il perché di certe diciture e quale è il reale rischio di contaminazione?????
Simone, la sua è teoria.
La pratica dice invece che con gli attuali metodi di analisi si possono individuare 0,03 mg/kg di pesce, ovvero il corrispondente di un ingrediente presente nel prodotto allo 0,000003%!!!
Andare in galera o meno non è il punto del discorso. Il punto è che per questa quantità minima, non esistendo soglie di riferimento, io sto mettendo a rischio una persona allergica perchè seguendo correttamente il mio piano HACCP non utilizzo la dicitura “può contenere”…
Tutto corretto, in teoria appunto…nella pratica, per i consumatori a rischio, un po’ meno…
grazie. la sua capacità di sintesi mi fa capire che ho dei problemi ad essere sintetico.
🙂
Non è teoria , semplicemente non conosco, ne cosa, ne come producete, quindi è ovvio che le indicazioni sono vaghe!
Non ci siamo capiti, probabilmente per colpa mia. Sono un Biotecnologo, lavoro nell’ ufficio Igiene degli alimenti di una grande azienda della GDO che fa anche produzione e ha svariati “bolli” CEE. Del tutto a vanvera non parlo.
Io ho semplicemente detto che ” Può contenere ” non è chiara come dicitura, se non sono in grado di escludere le contaminazioni minime, perché non riesco a sanificare completamente la mia linea produttiva fra un ciclo che contiene l’allergene e uno che ne è privo in ricetta, scriverò “contiene”, oppure separerò fisicamente (muri, camere bianche) le linee di produzione o ancora farò meno prodotti senza doverle turnare, a quel punto sarò completamente tutelato io legalmente e il consumatore sanitariamente.
Sicuri di aver letto e compreso il mio primo intervento?
In tal caso, è inutile stare a lamentarsi della mancanza di soglie, sensibilità degli strumenti ecc. DURA LEX SED LEX. Io volevo dare un’interpretazione più restrittiva, consigliando di dichiarare in modo chiaro la presenza di un’ allergene, anche quando magari non c’è, piuttosto che non indicarlo o farlo in maniera ambigua quando non posso ESCLUDERLO PER CERTO.
Io non produco nulla, sto facendo un discorso generale.
La dicitura “Può contenere” non è vietata e non è neppure ambigua. Un allergico la legge e non compra il prodotto.
Non sarebbe corretto a mio avviso dal punti di vista della normativa metterlo tra gli ingredienti invece. Ma in sostanza non cambia nulla al fine della comunicazione al cliente.
Dimentica tra l’altro che una delle possibili cause del “può contenere” è la cross contamination già presente nella materia prima che viene utilizzata (quella che viene comunicata dal fornitore attraverso le schede tecniche, per intenderci) per la quale sanificazione e separazione fisica che lei cita non hanno alcun effetto.
Il discorso delle soglie invece ha senso, tant’è che c’è chi si è posto il problema della loro individuazione e ci sono degli studi in merito per capire se si riesce ad arrivarci.
Da cosa evince che l’abbia dimenticato? Sono stanco di questo tono provocatorio di sfida, sono qui a raccontare quella che è la mia esperienza quotidiana, che non è fatta di penali e morti, ma di migliaia di prodotti al giorno.
Io parlo di HIC ET NUNC. Le soglie OGGI non ci sono, inutile fantasticare su quanto sarebbe bello se ci fossero.
Risponderò ancora una volta, alle sue argomentazioni ma per me il discorso finisce qui.
Se l’allergene me lo porta in dote il fornitore, in primis dovrei accorgermene in autocontrollo con le analisi periodiche delle materie in ingresso, in secondo luogo secondo sarebbe un vizio occulto di cui non può rispondere la mia Azienda.
Le strade che ho indicato come percorribili, servono a ridurre e minimizzare il Rischio, non a eliminarlo. L’esatto significato di autocontrollo.
Nessuna sfida, lei contesta l’utilizzo di un’indicazione che è invece permessa, tutto qui.
Quanto al discorso allergene da fornitore: dico che se l’è dimenticata perchè lei scrive “se non sono in grado di escludere le contaminazioni minime, perché non riesco a sanificare completamente la mia linea produttiva fra un ciclo che contiene l’allergene e uno che ne è privo in ricetta…”. Così scrivendo (dimenticanza o meno) lei non contempla la possibilità che un fornitore dichiari in scheda tecnica che su una determinata materia prima c’è la possibilità che sia presente soia da cross contamination, possibilità verso la quale non ho modo di adottare misure per prevenire e/o minimizzare il rischio, pertanto scriverò correttamente che il prodotto “può contenere soia” e non che “contiene soia” anche perchè le modalità di utilizzo della dicitura “contiene” sono descritte all’articolo 21 paragrafo 1 lettera b e a mio avviso non coprono i casi da lei citati.
Quanto alle soglie: è proprio perchè OGGI non ci sono che ha senso la dicitura “può contenere”…
Mi scuso se non sono riuscito a comprimere la complessità di un piano HACCP da 1500 pagine in un commento.
Buona giornata
Simone, ripeto, poi chiudo: non è una questione di pagine di autocontrollo. Le modalità secondo le quali lei vorrebbe che venisse utilizzata la dicitura “contiene” non sono quelle previste dalla normativa vigente e per contro, la dicitura “può contenere” che lei non “accetta” non è vietata. Questo è il succo del discorso.
Io, che sono allergico (frutta secca) da 38-39 anni (ne ho 41), e ho una formazione scentifica (ma non sull’alimentazione), sinceramente penso 2 cose, che voglio condividere :
1) Quando compro qualcosa, come consumatore (e nonostante quello che dica la UE) ho PIENO DIRITTO di sapere cosa contiene o cosa NON contiene. Una cosa c’e’ o non c’e’.
Qui non siamo in teoria quantisitica. E nemmeno in cucina della zia pina.
Altrimenti (passatemi la forzatura) la prossima volta acquisto la mortadella, apro la mia bustina, ci sono i pistacchi e basta e tutto andra’ bene perche’ sull’etichetta c’e’ scritto : “puo’ contenere tracce di maiale”.
Vi sembra normale ? la deriva e’ quella….
Non dimenticate che la legge nasceva per tutelare gli artigiani, quelli piccoli, quelli veri, pensate al maestro pasticciere/cioccolatiere che ad ogni cambio prodotto non poteva certo permettersi di lavare/pulire forni o vasche/vaschette in maniera chirurgica. Il costo (e il tempo) sarebbe lievitato a sproposito.
Ma le grandi industrie ?? Secondo me ce la fanno. Se qualcuno gli dice di farlo magari….
2) Pensateci adesso, questo e’ un consiglio che rivolgo a chi lavora nella GDO.
Perche’ sulle allergie alimentari si sono fatti pochi progressi come scienza, purtroppo. Il campo e’ di complessita’ enorme.
Le allergie, di contro, sono in aumento esponenziale.
Fra 5-10-30 anni, chi pensate che comprera’ i “vostri” prodotti con “puo’ contenere tracce” ?
Buona fortuna.
Victor
Cerchiamo di chiarire una cosa: per l’azienda aggiungere la dicitura “può contenere” comporta avere meno potenziali compratori non di più e quindi vendere meno non di più! Quindi non è un vantaggio. Per contro, tale dicitura è una maggiore tutela verso il consumatore e non un danno! Questo mi sembra evidente.
Poi, nel merito delle sue osservazioni: una cosa c’è o non c’è in base all’indice di rilevabilità dei mezzi utilizzati per ricercare quella cosa…Quindi una cosa può apparentemente non esserci semplicemente perché non ho i mezzi per individuarla…ma il fatto che ci sia, espone in questo caso il potenziale allergico a dei rischi.
Quindi, quando mancano le condizioni per azzerare tali rischi, aggiungere la dicitura “può contenere” è appunto una tutela verso il consumatore e non un danno.
Lei poi parla di grandi industrie, ma il tessuto industriale italiano è composto in larga maggioranza da piccole industrie, con problematiche non così tanto diverse dal pasticcere/cioccolatiere che lei cita…
D’altra parte un allergico è tale anche dal pasticcere, e la sua tutela di un allergico deve essere garantita in tutte le occasioni…se io fossi allergico, tanto per dire, avrei molta più paura di andare al ristorante piuttosto che ad acquistare un prodotto industriale…
Chi ha scritto lavora da tantissimi anni in azienda alimentare e sa bene che cosa sono le contaminazioni secondarie, crociate e accidentali; sa bene quanta formazione e sorveglianza siano necessarie per tutelare i consumatori e l’azienda stessa. Sa bene anche come “funzionano” i metodi analitici oggi disponibili e tutte le problematiche ad essi legati. Sono favorevole a valutazioni costruttive della problematica, non perchè l’azienda si debba cautelare e quindi possa dicedere di rinuniciare ad una fetta di clienti pur di evitare eventuali incidenti e polemiche per eventuali tracce; credo semplicemente che non poter nemmeno “garantire” che una coscia di pollo cruda confezionata sia priva di allergeni ed etichettarla con “Può contenere bla bla bla…” faccia dubitare della robustezza del sistema di autocontrollo e delle sue verifiche di efficacia, faccia persino dubitare del’igiene in generale di quel luogo e prodotti, tutto qui. Mi piacerebbe che ci fosse maggiore CULTURA sugli allergeni alimentari e che ognuno di essi venisse ponderato nel suo rischio, misurato sulla matrice, sulla valutazione del rischio vera e propria, e non sul “paracu…ismo” facile.
Non sono d’accordo con la risposta dell’Avv. Dongo in quanto è troppo generalista rispetto al problema.
E’ ovvio che bisognerebbe puntare a migliorare le condizioni igieniche e specifiche di determinate attività, ma bisogna anche prendere in considerazione il fatto che molte aziende o non sono pronte a gestire linee gluten free sia per questioni economiche (i prodotti gluten free costerebbero di più, hanno meno marginalità) e strutturali (occorrono linee dedicate e un approccio igienico diverso). In fondo, mi spiace dirlo ma chi ha intolleranza al glutine credo sia una piccola percentuale ed è anche dimostrato che la moda del momento di orientarsi a prodotti gluten free non è sostenibile per la dieta di persone normali.
Il problema è cogente ma riguarda i produttori di carne fresca (macelli con disosso e sezionatura) che hanno anche reparti di produzione di elaborati, macinati e a hamburger, che producono per le catene e i laboratori delle insegne stesse annessi ai supermercati. Purtroppo queste realtà sono la maggioranza rispetto ai grandi marchi industriali che potrebbero loro garantire una filiera controllata.
Io ho lavorato in aziende di carne fresca e capisco il problema e tuttavia, nonostante l’impegno etico che ci si può mettere sul lavoro di fatto viene impedito dalle procedure e dalle politiche aziendali secondo il principio del fare in fretta per fare di più. Si tenga conto che in determinate circostanze le ricette degli elaborati vengono anche riprese più volte durante la giornata a seconda dell’ordine e che questi prodotti sono ultrafreschi con durabilità max di 7 gg.
Basterebbe applicare il buon senso e lavorare prima con le materie prime più pulite, tuttavia ripeto che occorrerebbero almeno linee dedicate e separate.
Teniamo anche conto che nelle maggior parte delle realtà industriali e semiindustriali ci lavorano prevalentemente cooperative e il personale non è così sensibilizzato a lavorare con criterio.
Secondo me ci vorrebbero anche più ispezioni da parte delle ASL che invece latitano o si fermano al solo esame della documentazione cartacea…
Salve a Tutti.
Il dibattito instauratosi potrebbe paragonarsi al “curva operativa” nei collaudi di qualità; ovvero, c’è un rischio che il produttore si vede respinto un lotto contenente una % di difettosità minore dello standard e un rischio che il compratore accetti un lotto con % di difettosità maggiore dello standard!
Mi spiego. Premesso che vige il principio di cautela così come prescrive il Reg. UE 1169 citato. Se non si può escludere, categoricamente, la presenza di allergeni ovvero in azienda non sono nè entrati nè usati allergeni allora, in tale caso, risulta eccessivo riportare in etichetta “può contenere, ecc.” perché, formalmente, non ci sono evidenze (fatture, schede tecniche, ecc.): diverso è il caso, invece, se io uso queste sostanze o, ragionevolmente, presumo che potrebbero essere contenute nelle materie prime che acquisto; è ovvio che, in questo caso, è doveroso informare il consumatore. Tuttavia, anche nel primo caso potrebbero esserci potenziali contaminazioni di allergeni provocate dal personale! Lo standard BRC, per esempio (ma anche standard di Clienti), addirittura richiede il “controllo” di alimenti allergenici portati in azienda dal personale (snack alla frutta secca, ecc.) e, come minimo, la formazione/sensibilizzazione su tale argomento. Qui non si tratta di procedure GMP, HACCP o di sanificazione, perché si può escludere una sostanza fino a quando non sarò in grado di rilevarla, come scrive, giustamente, il sig. Alessandro. E, visto che non ci sono “soglie”, come si è scritto, ogni soggetto allergico deve agire secondo scienza e coscienza; probabilmente, deve trovare egli stesso la soglia di tolleranza! Poi, riportare tale dicitura comporta, ovviamente, la diminuzione del target di consumatori. In conclusione, il concetto è: se nella mia azienda non entrano sostanze allergizzanti e posso dimostrarlo, secondo me, si può rinunciare alla dicitura.
Per professione seguo analisi ACCREDITATE per ricerca di glutine con garanzia di rilevazione di 10 mg/ kg di glutine, quindi ben al di sotto del limite per alimenti ” privi di glutine (20 mg/kg). Mi dispiace per i celiaci ( io sono intollerante al lattosio), ma se un’azienda che produce coscie di pollo utilizza per altre linee produttive anche cereali contenenti glutine e non riesce o non può ( organizzativamente ed economicamente parlando) garantire l’assenza di contaminazioni crociate, per il principio di precauzione di cui al Reg. C’E 178/02 così come richiamato dal Reg CE 609/2013 di prossima applicazione, deve indicare in etichetta questo limite al costo di perdere fette di mercato. Non è una questione di applicazione di norme igieniche, ma semplicemente una scelta di mercato. Per i celiaci esistono prodotti dedicati, fabbricati da stabilimenti riconosciuti gluten free a livello ministeriale.
Leggo finalmente un vero dibattito sul tema, grazie agli addetti ai lavori e non solo teorici delle normative.
Quale responsabile della qualità e sicurezza di azienda produttrice e distributrice garantisce il prodotto finale se non ha il controllo di tutta la filiera produttiva, a partire dalla materia prima?
Bastano “le carte” dei fornitori a convincerlo dell’assenza di un potenziale contaminante e mettere la sua firma di garante per l’impresa ed il suo imprenditore, sull’assenza in etichetta di un potenziale killer?
Agli esperti non coinvolti l’ardua sentenza, perché ai diretti interessati, la risposta è già chiara e chiaramente espressa nei commenti.
Non avevo ricevuto le notifiche e mi sono perso il dibattito!
Meno male che ogni tanto ci si confronta!!
Parto da simone ed alessandro che si sono scontrati ed io ero in mezzo: io non credo che ci sia tono di sfida o polemica e capisco che 1500 pagine di autocontrollo e anni di valutazione di rischi siano impossibili da riportare in un commento però parliamo di realtà e ribadisco che rischio zero NON ESISTE però ESISTONO tolleranze e soglie. Perché devo privare un intollerante “leggero” di un alimento che “può contenere” scrivendo in etichetta un categorico CONTIENE?
Inoltre chiedo a simone come fa a fare un autocontrollo così spinto che può dare la certezza che i fornitori non portino “in dote” allergeni imprevisti.
Io in azienda sono molto in difficoltà con questo argomento e devo tutelare allo stesso modo consumatori e azienda: l’unico modo possibile è la dicitura in etichetta.
Chiudo con un’ulteriore osservazione: la sanificazione non necessariamente elimina gli allergeni, anzi non è fatta per questo scopo.