Quando le persone sono debitamente informate, consumano alcol con più moderazione e si espongono a meno rischi per la salute. L’affermazione sembra scontata, ma non lo è più di tanto, perché ogni volta che si va a verificare, si nota che il livello di informazione sui danni associati al consumo di alcol sia scarso. Per questo interventi mirati, come l’inserimento di etichette chiare e comprensibili, potrebbero migliorare la situazione, qualora si riuscisse a metterli in campo. A questo proposito, è illuminante quanto accaduto con una serie di studi canadesi interconnessi, progettati e condotti in contesti reali negli ultimi anni dai ricercatori dell’Università di Toronto, e proposte in alcune pubblicazioni uscite insieme sul Journal of Studies on Alcohol and Drugs.
Lo schema generale consisteva nell’inserire nei circuiti di vendita bottiglie di birra e superalcolici con etichette con tre tipi di informazioni. La prima riguardava le linee guida delle autorità sanitarie canadesi, che prevedono un consumo di non più di due bicchieri al giorno per le donne, tre per gli uomini, astenendosi per due giorni nei weekend. Una parte era dedicata alle porzioni effettive contenute in una bottiglia e infine una nota sui legami tra consumo di alcol e tumori, che l’Oms ha chiarito più di 30 anni fa.
In uno studio è stata monitorata la vendita di 300 mila bottiglie con l’etichetta che includeva le informazioni sulle linee guida, le porzioni e il rischio di cancro. Si è visto che nella zona c’è stato un calo del 6,6% degli acquisti dei prodotti con la nuova etichettatura. In un altro oltre duemila persone sono state intervistate sulla conoscenza delle linee guida prima e dopo l’arrivo nei negozi di bottiglie con le nuove etichette. Il risultato è stato che il numero di partecipanti con un livello di informazione soddisfacente è cresciuto di tre volte, anche rispetto a quello registrato in una zona limitrofa, dove le etichette non erano state introdotte. Un terzo studio ha indagato sulle conoscenze della popolazione sul rischio cancro, sulle porzioni e sulle linee guida. Prima dell’indagine solo il 25% degli intervistati sapeva dell’esistenza del legame tra alcol e tumori.
L’esperimento è durato solo un mese, perché l’industria degli alcolici si è mobilitata in massa e ha fatto di tutto affinché le bottiglie con le informazioni sul rischio cancro fossero tolte dal mercato. La scusa ufficiale è stata che non esisteva una legge e che in questo modo si potevano danneggiare alcune aziende.
Con queste argomentazioni lo studio è stato fermato e le bottiglie ritirate. La ricerca è ripartita l’anno successivo, ma senza le etichette sul rischio cancro. L’azione di lobbying ha avuto dunque successo, ma i responsabili del giornale l’hanno raccontata nei dettagli in un editoriale in cui accusano le aziende di arroganza e le autorità locali (del territorio dello Yukon) di essere succubi delle lobby e di non tenere in conto il diritto dei cittadini a essere informati.
Hanno avuto un approccio totalmente diverso i ricercatori delle Università di Bristol e Cambridge, nel Regno Unito. Per raggiungere lo stesso scopo (una diminuzione del consumo di alcolici) hanno adottato una strategia che si è già dimostrata efficace con gli alimenti: ampliare la scelta di bevande non alcoliche, a scapito di quelle continenti alcol.
Come riferito su BMC Public Health, i ricercatori hanno chiesto a 800 persone (dall’età media di 38 anni, consumatori regolari di alcolici) di scegliere tra otto opzioni virtuali di bibite. Hanno visto che quando la proporzione di drink analcolici sale dal 50 al 75%, la propensione del campione a scegliere uno di questi aumenta del 48%, passando da un quarto a quasi metà degli intervistati. Quando scende dal 50 al 25%, invece diminuisce del 46%.
Troppo spesso le alternative, quasi sempre presenti in bar e ristoranti – hanno commentato gli autori – sono poco visibili e poco proposte, ma se i clienti le possono prendere in considerazione, spesso cambiano idea e decidono per una bevanda analcolica. Oltretutto il mercato dei drink spirit-free è in crescita, e questo significa che anche i gestori possono continuare ad avere introiti rinunciando a una parte delle vendite di alcolici.
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Giornalista scientifica
Non si parla della dipendenza all’alcol?