L’allevamento in valle nel nostro paese è una tradizione antica, che garantisce un prodotto ittico paragonabile per qualità a quello selvatico ed è differente dagli allevamenti intensivi che in alcune aree del mondo danneggiano l’ambiente, come quelli di gamberi nel Sud Est Asiatico. Affinché le valli da pesca riacquistino il ruolo che avevano ai tempi della Serenissima, è necessario che questo tipo di allevamento rispettoso dell’ambiente riesca a ottenere il necessario riconoscimento. La strada – soprattutto per quanto riguarda l’allevamento dei gamberi – sembra ancora lunga. Non è molto noto che nelle valli da pesca del Nord Adriatico si allevino gamberi – per la precisione gamberi della specie Penaeus Japonicus adatta alle temperature dei nostri mari -: lo racconta Elisabetta Zavoli, in un articolo apparso su Altraeconomia, una tappa di un progetto giornalistico internazionale che analizza l’impatto ambientale della produzione di gamberi a basso costo.
«Gli allevamenti intensivi di pesce, e soprattutto di gamberi, in Estremo Oriente sono responsabili della scomparsa delle foreste di mangrovie, particolarmente importanti per l’ambiente perché oltre a proteggere il territorio dall’erosione, assorbono molta più anidride carbonica delle foreste temperate», spiega Zavoli. Il problema riguarda soprattutto l’Indonesia che è il primo esportatore di gamberi verso gli USA, e il terzo a livello mondiale. Ma tutto il mondo deve fare i conti con l’impatto ambientale della crescente richiesta di pesce da parte del mercato: secondo l’ISPRA, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, nel Mediterraneo circa il 90% degli stock delle specie ittiche pescate sarebbe sovrasfruttato.
L’allevamento in valle resta un’esperienza limitata in termini quantitativi, ma interessante perché permette di produrre pesce e crostacei di qualità con un impatto ambientale minimo anzi contribuendo alla gestione dell’ambiente. Tanto che molte valli sono inserite all’interno di aree protette. «L’acquacoltura in valle non utilizza mangimi o antibiotici, si usa dire che in valle il pesce lo fa il sole – spiega Renato Palazzi dell’Azienda Regionale Veneto Agricoltura che segue questi progetti -. Più che di un allevamento diretto del pesce, possiamo parlare della gestione di un ambiente ai fini produttivi». Gli allevatori, infatti, si limitano a inserire in valle le post larve – nel caso dei gamberi – o ad attirare nelle valli gli avannotti (i piccoli, nello stadio larvale) di pesce, che crescono e si alimentano autonomamente secondo la catena alimentare della rispettiva specie, a partire dal fitoplancton, e sono pescati quando arrivano all’età adulta.
In Adriatico, l’allevamento di pesce è una tradizione fin dal XVI secolo, mentre per quanto riguarda i gamberi, le esperienze moderne risalgono agli anni ‘80 del secolo scorso e continuano ancora oggi, «ma si fa gambericoltura anche in Romagna, Puglia, Sardegna», spiega Palazzi. L’allevamento di gamberi resta per ora un fenomeno minoritario, per varie ragioni tra cui il costo della “semina” e le patologie che hanno compromesso la produzione, mentre maggior successo ottiene l’allevamento di pesci adatti a vivere in acque salmastre come spigole (branzini), orate, cefali e anche anguille: «Un tempo erano una produzione importante e richiesta, che oggi è diminuita anche a causa dell’inquinamento marino, visto che si tratta di pesci che arrivano dal mare dei Sargassi, dove si riproducono, tramite le correnti che li portano fino al mediterraneo», spiega Gerolamo Xiccato dell’Università di Padova, agronomo ed esperto di allevamento animale. Ed è un peccato, perché pur essendo destinato a rimanere un fenomeno di nicchia, l’acquacoltura in valle garantisce pesce freschissimo e con caratteristiche molto simili a quelle del selvatico, a prezzi più contenuti. «Non ci sono studi specifici sui gamberi, ma sappiamo che il pesce di valle è più simile al selvatico che al pesce di allevamento, come consistenza e anche come composizione», spiega Xiccato.
I pesci di allevamento sono più grassi dei selvatici perché hanno sempre cibo a disposizione: «Una spigola o un’orata selvatica ha meno del 2% di grassi, una allevata arriva all’8/10, mentre spigole e orate di valle sono leggermente più grasse di quelle selvatiche – 3/4% di grassi – ma nettamente meno dei pesci allevati», osserva il docente. Anche la composizione del grasso è diversa nei pesci selvatici, che mangiano altri pesci, krill o plancton, rispetto ai pesci allevati che hanno una composizione del grasso più affine a quella degli oli vegetali con cui questi animali sono spesso alimentati. «In questo modo però vengono a mancare alcuni acidi grassi polinsaturi come gli omega 3, che sono abbondanti nel pesce selvatico e ne costituiscono il pregio nutrizionale», ricorda Xiccato.
Il pesce di valle richiede ampi spazi: «si può arrivare a 100 chili di pesce per ettaro, mentre nell’intensivo il range va da 10 a 30 chili pesce per metro cubo» – ricorda Palazzi – e cresce lentamente, anche perché durante i mesi invernali rimane senza mangiare. Tanto che può impiegare circa tre anni per arrivare a 5/600 grammi- secondo la specie – contro i 15/18 mesi dell’allevamento intensivo. Tutte differenze che si riflettono sul gusto, migliore rispetto a quello del pesce allevato, e anche sul prezzo, che è inferiore a quello del pescato selvatico, ma superiore a quello del pesce di allevamento. Il problema è la mancata valorizzazione di un prodotto che rappresenta una caratteristica dei nostri territori, e una tradizione da preservare: «Nonostante gli enti locali si siano impegnati per cambiare le cose, allo stato attuale le normative non permettono di identificare il pesce di valle che viene etichettato come “allevato”», spiega Xiccato. Non resta dunque che affidarsi a canali commerciali noti, o basarsi sulla taglia, che in genere nel pesce di valle è maggiore rispetto ai pesci allevati nelle gabbie marine. Senza contare che la pesca in valle viene effettuata solo a fine autunno, da ottobre a dicembre, e non garantisce un rifornimento costante, necessario per accedere ai canali della grande distribuzione. La strada per garantire un futuro a un prodotto di qualità che ha un bassissimo impatto sul territorio, insomma, sembra ancora lunga.
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giornalista scientifica
Molto interessante, ma come si fa a chiedere alla propria pescheria il pesce di valle? è sufficiente che venga dall’Italia? penso di no.
In effetti, gli esperti dicono che il pece di valle si trova vicino alle zone di produzione..ci vuole una pescheria di fiducia.
Grazie per la risposta, ne ho due di pescherie di fiducia, chiederò.
Gentile Sandro,
Ecco dove può trovare il pesce di valle http://www.pescherieonline.it e pure certificato biologico, lo spediscono anche a casa.
Un ottimo esempio di buon senso e di felice compromesso tra il non far nulla, esaurendo la fauna ittica ed allevare in modo intensivo a bassa qualità.
Soluzioni di questo genere nascono se si ha rispetto per gli animali, l’ambiente, la catena alimentare ed anche per l’ultimo anello.
Magari qualcuno sa il nome di una valle coltura che non usa mangime!
E 100 kg per ettaro.
Grazie