Negli ultimi anni è stato introdotto da diversi ricercatori il concetto di “deserto alimentare”, una definizione volta a indicare le zone periferiche dei centri urbani nelle quali la disponibilità di cibo di qualità è scarsa o addirittura inesistente. La carenza di alimenti freschi, poco lavorati e nutrizionalmente validi sarebbe tra le principali cause della maggiore incidenza di malattie quali il diabete e l’obesità nelle zone dove vivono di solito le fasce di popolazione più disagiate, che non possono permettersi di risiedere nei centri delle città. Per questo, identificare i deserti urbani e cercare di migliorare la situazione aumentando il numero di rivendite alimentari decentralizzate e soprattutto orientate alla commercializzazione di cibo sano, sarebbe il primo passo verso un miglioramento della dieta, se necessario con sostegni pubblici.
La situazione, però, potrebbe essere più complicata di così, e la presenza fisica di un certo numero di negozi e supermercati potrebbe non essere così determinante. Lo suggeriscono i dati di uno studio condotto da ricercatori delle università di Nottingham, in Gran Bretagna, e di Adelaide, in Australia, basato su calcoli matematici molto accurati, appena pubblicato su PLoS Complex Systems.
Le tessere di Tesco
Per inquadrare correttamente gli acquisti dei residenti delle diverse zone di Londra, e non basarsi solo sulla presenza o meno di negozi, i ricercatori si sono avvalsi del grande database della catena più popolare in Gran Bretagna, Tesco, chiamata Tesco Grocery 1.0, che raccoglie e traccia i dati di milioni di clienti. Nel caso specifico, hanno considerato 420 milioni di prodotti acquistati da 1,6 milioni di possessori della tessera fedeltà Tesco Clubcard in 411 supermercati di tutta la zona metropolitana, suddividendoli in 12 categorie: cereali, dolci, bibite analcoliche, frutta e verdura, pesce, carne rossa, pollame, salse, grassi e oli, uova, latticini e piatti pronti.
Hanno così scoperto una realtà un po’ diversa da quella attesa in base alla sola presenza delle rivendite. Ciò che sembra avere maggiore influenza sulle scelte dei consumatori è infatti il gruppo sociale ed etnico di appartenenza, e non il fatto che siano disponibili o meno certi negozi nelle immediate vicinanze di casa.
Reddito o istruzione?
In particolare, è subito apparsa una grande differenza tra chi risiede nelle zone più a nordest e nordovest rispetto a chi vive altrove: sono quelle le aree dove si registrano più acquisti di alimenti ricchi di zuccheri e carboidrati, sali e grassi, ultra trasformati, e poveri di fibre e proteine. Inoltre il reddito ha meno influenza del previsto: a nordest e a nordovest chi ha più denaro acquista comunque più cibo scadente, mentre nelle zone occidentali i più ricchi spendono di più per alimenti di qualità. Molto sembra quindi dipendere dal livello di istruzione e dalle abitudini della propria cerchia sociale.

Un andamento identico si vede se si mette in relazione il possesso di auto e ciò che si acquista per mangiare: averne una o più corrisponde, nelle zone più periferiche, a un maggior consumo di cibo di cattiva qualità, e nelle zone più centrali a un aumento degli acquisti di prodotti sani. Il fatto che a influire sia la cultura emerge infine anche dalla mappatura delle minoranze presenti: laddove sono presenti più neri, asiatici e rappresentanti di minoranze di vario tipo, e cioè in quelle stesse zone del nordest e nordovest, le scelte tendono a essere peggiori.
Le conseguenze
Un modello come questo, incentrato sugli acquisti reali e non sulla mera presenza nel quartiere di un certo tipo di negozi, è molto più aderente alla realtà, sottolineano gli autori, che mettono in evidenza come sia indispensabile tenere conto della complessità delle situazioni sociali, prima di pensare a qualunque tipo di intervento. Povertà, scarsa istruzione e disuguaglianze, insieme ai retaggi culturali, sono più importanti del numero e della vicinanza di supermercati che vendono frutta e verdura, e comunque il ruolo dei ciascuno degli elementi in gioco cambia da realtà a realtà.
Nel Regno Unito si stima che il 13% dei decessi sia da attribuire a una cattiva alimentazione, e al momento più della metà dei londinesi (il 61%) è in sovrappeso o obesa e i tassi di obesità dei bambini di 10-11 anni sono superiori rispetto alla media nazionale. Per questo si studiano iniziative che possano contrastare la tendenza al peggioramento. Ma lo studio appena pubblicato fa capire che nessun piano potrà avere un pieno successo se non terrà conto di più variabili, valutandone il peso quartiere per quartiere e coinvolgendo nelle analisi e nelle proposte le autorità locali e i rappresentanti della cittadinanza.
Lo stesso, del resto, potrebbe valere in qualunque centro urbano del mondo.
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Giornalista scientifica


