Secondo un report del mese di febbraio dell’Istituto Veterinario Norvegese, nel 2023 sarebbero stati 62,7 milioni i salmoni morti negli allevamenti nella cosiddetta ‘fase di mare’, cioè quella in cui i pesci vivono all’interno di recinzioni installate in zone costiere. La percentuale di mortalità è risultata del 16,7%, registrando un aumento sia in termini assoluti che percentuali (nel 2022 il tasso era del 16,1%).
Gli alti tassi di mortalità sono un problema conosciuto per questa tipologia di allevamenti, presenti soprattutto in Norvegia e in Cile, ma diffusi anche in molti altri Paesi, come Scozia, Islanda, Isole Faroe e Canada. Tra le principali cause di morte dei salmoni ci sono le malattie, che possono essere dovute a virus, batteri e parassiti, ma un ruolo importante è anche quello delle condizioni dell’ambiente marino in cui si trovano le reti. Picchi di mortalità si registrano anche in seguito a eventi come attacchi di meduse, ondate di caldo o sviluppo eccessivo di alcune alghe.
Consumi di salmone in continua crescita
Il consumo di salmone negli ultimi anni continua a registrare una crescita a livello globale, che vede Stati Uniti, Europa e Giappone tra i principali consumatori. Questa crescita si spiega in parte grazie alla popolarità del salmone, considerato un alimento sano e di cui i consumatori apprezzano caratteristiche come il contenuto di Omega 3, vitamine e minerali, ma è anche parte di una più generalizzata espansione del mercato dell’acquacoltura. La tipologia che ha un maggior mercato è quella del salmone atlantico. Secondo la FAO, il salmone atlantico d’allevamento nel 2020 ha avuto una produzione di 2,7 milioni di tonnellate, ammontando al 32,6% di tutta la produzione in acquacoltura marina e costiera di pesci.
Della totalità del salmone prodotto a livello globale si stima però che circa il 70% derivi dagli allevamenti, che riescono a sopperire più facilmente alla crescente richiesta del prodotto, ritenuto una fonte di proteine animali più sostenibile della carne. Tuttavia presenta comunque criticità relative alla salute degli esemplari allevati e selvatici e dell’ambiente marino in cui si trovano le reti.
Le criticità degli allevamenti di salmoni
Le reti in mare aperto infatti permettono un naturale ricambio d’acqua, ma non impediscono al mangime in eccesso, ai farmaci e ai rifiuti di diffondersi e depositarsi sul fondale marino. Le gabbie, in base alla dimensione, possono contenere anche 100 o 200 mila esemplari contemporaneamente e solitamente gli allevamenti sono costituiti da più reti. L’alta concentrazione di pesci in uno spazio ridotto fa sì che siano più soggetti all’attacco da parte dei pidocchi di mare, crostacei di acqua salata che danneggiano la pelle e la carne, e che si diffondono molto più facilmente negli allevamenti di quanto accada con gli esemplari selvatici.
Gli episodi di salmoni sfuggiti agli allevamenti in grandi quantità a causa di danneggiamenti alle reti o di errori umani hanno un impatto proprio sulle popolazione selvatiche, il cui numero di esemplari è già in calo da tempo anche a causa del cambiamento climatico, che provoca modifiche agli ecosistemi, alle temperature dei fiumi, ai luoghi in cui i salmoni trovano fonti di cibo. Si stima che la popolazione selvatica ammontasse a un numero compreso tra 8 e i 10 milioni di esemplari negli anni ‘70, e che oggi siano circa 3-4 milioni. Quando i salmoni d’allevamento condividono il percorso di quelli selvatici aumenta il rischio di trasmissione di patologie da una specie all’altra. Inoltre il loro incrociarsi sembrerebbe indebolire geneticamente la popolazione selvatica, sebbene in ambiente scientifico si ritengano necessari maggiori studi per valutare in modo esatto l’impatto degli allevamenti sugli esemplari selvatici.
Le contromisure
Anche per queste ragioni diversi Paesi hanno deciso di vietare in alcuni casi l’allevamento di pesci in generale e in altri l’installazione di nuovi impianti. Alcuni Paesi, però, come la Danimarca, si stanno muovendo verso una tipologia diversa di allevamento, al chiuso e su impianti su terra, che benché riesca a limitare il problema della diffusione dei rifiuti e quello degli esemplari fuggiti dalle reti, presenta inevitabilmente maggiori costi energetici e produttivi.
L’allevamento in acque marine prevede comunque delle fasi preliminari, in cui i salmoni crescono in vasche di acqua dolce. Prima dell’inserimento in mare alcuni produttori scelgono di implementare un sistema di vaccinazione per limitare lo sviluppo delle malattie e quindi limitare l’utilizzo di antibiotici. Una volta pronti per l’ambiente marino vengono poi trasportati nelle reti poste in mare, dove rimangono per un periodo di circa 18 mesi, nel quale raggiungono un peso che si aggira intorno ai 4-6 chilogrammi.
Una delle ragioni per cui il salmone d’allevamento è considerato una proteina animale più sostenibile è perché necessita circa 1,15 kg di mangime per ogni suo chilogrammo. Un rapporto in peso più basso rispetto a quello necessario per la carne di polli, maiali e bovini. Tuttavia ciò comporta comunque che un grande quantitativo di pescato di pesci più piccoli e di altre fonti alimentari (come la soia) venga utilizzato per la produzione del salmone al posto di essere sfruttato direttamente per l’alimentazione umana.
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si dovrebbe ripensare il metodo di allevamento costiero di tutte le specie di pesci, perché quello tradizionale è portatore di numerosi problemi (quali quelli elencati nell’articolo, uso di medicinali, antibiotici, sovraffollamento, inquinamento ambientale, ecc.). le conoscenze che abbiamo oggi dovrebbero essere messe a frutto, per proteggere le nostre stesse fonti di cibo, l’ambiente e la nostra salute.
Per evitare problematiche di questo tipo risulta fondamentale la certificazione internazionale ASC degli allevamenti, unica strada garante della qualità del prodotto. Spiegatelo a chi non lo sa.
Come sempre ,un ottimo articolo, ottima informazione
Anche questa, secondo il mio parere rientra nella “moda” di mangiare a tutti i costi pesce, crostacei ecc…
Bisogna considerare che un prodotto ittico allevato, non penso possa fornire molti alimenti nutritivi per i quali vengono decantati, cosa ben diversa è il pescato selvatico.
Leggere notizie come questa, mi conferma che, dove l’essere umano mette le mani, crea di sicuro un disastro. Per inciso, non mangio carne e pasce dal 1973.