Come le auto e i camion, i riscaldamenti e le industrie. Il ruolo delle coltivazioni e degli allevamenti intensivi nell’inquinamento atmosferico della Lombardia è, per dimensioni, paragonabile a quello delle fonti tradizionalmente incriminate per l’aria irrespirabile. E questo spiega, tra l’altro, perché nella recente crisi, come accade sempre, le aree con la situazione peggiore fossero, oltre alla zona di Milano e Pavia, quella di Lodi e Cremona e poi quella di Mantova. Pertanto, se si vuole agire per migliorare la qualità dell’aria, non si può prescindere da un’azione decisa anche sugli allevamenti e le coltivazioni.
Lo studio del Politecnico di Milano
Per valutare accuratamente il rapporto tra agricoltura e inquinamento, gli esperti del Politecnico di Milano, sostenuti dalla Fondazione Cariplo, hanno utilizzato un approccio innovativo. In particolare, volevano verificare il ruolo degli allevamenti intensivi sulla concentrazione di polveri sottili PM2,5, le peggiori per la salute perché capaci di arrivare in ogni tessuto del corpo umano, cervello compreso, grazie al loro diametro minuscolo (2,5 nanometri o meno).
Come riportano su Chemosphere gli ingegneri Maria Brovelli e Daniele Oxoli, del Department of Civil and Environmental Engineering, coordinatori dello studio, la sovrapposizione è emersa incrociando i dati satellitari del programma Copernicus sulla qualità dell’aria con quelli della destinazione delle aree rurali della Regione Lombardia. Il tutto è stato elaborato con un programma di intelligenza artificiale chiamato GEOAI (da Geomatics and Earth Observation Artificial Intelligence), messo a punto proprio per analizzare questo genere di dati tenendo conto delle variazioni locali.
Allevamenti e inquinamento
Il risultato è una mappa molto più dettagliata di quelle disponibili fino a oggi, che non lascia scampo: la situazione peggiore è quella dei centri urbani ma, anche, quella delle aree più densamente coltivate e dove sono presenti gli allevamenti intensivi, che hanno un’urbanizzazione e un’industrializzazione relativamente scarse.
Per quanto riguarda le colture, il riso sembra essere l’unica coltura che non emette PM2,5, mentre mais e cereali sono associate a valori molto elevati e contribuiscono in modo evidente ai picchi di inquinanti, più che alla concentrazione basale, per una serie di motivi chimico-fisici. Le PM2,5, inoltre, nascono essenzialmente dall’uso dei fertilizzanti, che rilasciano ammoniaca. Per quanto riguarda gli allevamenti, il ruolo primario è quello delle emissioni di ammoniaca delle deiezioni: tutti materiali dai quali si originano enormi quantità di PM2,5.
Le conclusioni
Visto il ruolo di assoluta centralità, nessun programma finalizzato al miglioramento della qualità dell’aria che voglia essere efficace può tralasciare interventi sul settore agricolo. Gli esperti del Politecnico sottolineano poi l’importanza di proseguire negli studi per quantificare il ruolo specifico delle possibili fonti, al fine di fornire dati per la programmazione degli interventi mirati, e quella di continuare a monitorare l’andamento dell’aria con questo metodo.
Gli altri settori responsabili della produzione di PM negli ultimi anni hanno fatto passi in avanti: dai carburanti ai motori termici, dalle caldaie domestiche agli scarichi delle aziende. Sarebbe ora che anche quello agricolo iniziasse ad assumersi le proprie responsabilità, e a contribuire al miglioramento dell’aria di quella che è resta una delle zone più inquinate d’Europa.
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Giornalista scientifica
provate a dirlo alle associazioni di categoria (CIA & Co.)…
Leggendo più di qualche articolo qui: https://assosuini.it/news/ si trovano vari commenti, anche di docenti universitari che affermano il contrario di quello scritto in quest’articolo. Ma qui abbiamo ricercatori che dovrebbero essere super partes, di là forse c’è la mano pesante delle lobby della carne…
uno studio scientifico è un conto. un commento, anche se di un docente universitario, è un’altra cosa
Grazie dell’articolo e di sollevare un problema noto fra chi si occupa di qualità dell’aria, ma di cui non si parla.
Dalla figura allegata, presa da una presentazione del progetto PREPAIR (https://www.lifeprepair.eu/) e sulla quale trovate citati gli autori, si vede che l’agricoltura è responsabile del 94 % delle emissioni di ammoniaca (precursore del PM2.5) in pianura padana, e che la quasi totalità delle emissioni dell’agricoltura sono dovute agli allevamenti, con i bovini (carne e latte) che fanno circa il 50% da soli. Questi sono dati pubblici accessibili attraverso i dati degli inventari delle emissioni (https://www.inemar.eu/).
Alle emissioni di ammoniaca sono “associate” quelle di metano (gas serra). Il peso di agricoltura/allevamenti in Europa (EU27) è pari al 55.9% delle emissioni totali di metano, consultabile qui: https://climate-energy.eea.europa.eu/topics/climate-change-mitigation/greenhouse-gas-emissions-inventory/data
Quando si esaminano potenzialità e costi delle misure tecniche di riduzione delle emissioni, viene subito da pensare che una moderata riduzione dei consumi di carne e latticini (25%?) avrebbe un impatto su qualità dell’aria e clima senza i costi delle misure.